Intervista all’artista cervignanese che ha dedicato la sua vita alla ricostruzione di ciò che avvenne la notte di 33 anni fa a Ostia
«Cercò il martirio per autodecisione. E scelse la data sacra di domenica 2 novembre 1975»
Sono trascorsi 33 anni dall’assassinio di Pier Paolo Pasolini, il poeta di Casarsa della Delizia massacrato nei pressi di un campetto da calcio a Ostia la buia notte di domenica 2 novembre 1975. Prima ridotto in fin di vita a colpi di spranga, poi definitivamente ucciso sotto le ruote della sua auto, un’Alfa Romeo, che gli passa sul petto e gli fa scoppiare il cuore. Dopo poche ore del delitto si autoaccusa il diciassettenne Pino Pelosi. Ma la morte incidentale, dovuta alla reazione di un ragazzo di vita, non convince molti. E si ipotizza un complotto politico.
Certo è che l’uccisione di Pier Paolo Pasolini colpisce l’Italia e non solo. Ai funerali, a Roma, in Campo dei Fiori, partecipano scrittori, intellettuali, registi, ma anche una folla immensa, commossa, di lettori, spettatori, gente comune. Dice, a poche ore dalle esequie, Eduardo De Filippo: «So distinguere tra morti e morti e tra vivi e vivi, Pasolini era realmente un uomo adorabile e indifeso. Era una creatura angelica che abbiamo perduto come uomo, ma come poeta diventa ancora più alta la sua voce».
Tutti lo piangono. Anche Giuseppe Zigaina, l’artista di Cervignano del Friuli le cui opere sono esposte in prestigiosi musei e collezioni d’Europa e d’America. Pasolini e Zigaina, così diversi e così simili, sono amici. Si conoscono nel 1946, in occasione di una mostra di Zigaina. Tra di loro si stabilisce un profondo legame artistico, umano, intellettuale. Diverse sono le collaborazioni del pittore friulano a opere letterarie, a film come Teorema e Decameron. Legami che tutt’ora non si sono sciolti.
Pasolini era di casa a Cervignano. Presto Zigaina avvertì l’esigenza di ripensare a quella morte, di ricostruire la tragedia. «Volevo e voglio sottrarre Pasolini a quell’interpretazione alla lettera che è passata comunemente. Non si sa come definire la storia di quest’Autore: è una strana fiaba, è un racconto mitico, è un’assoluta verità che sconvolge solo a immaginarla».
Zigaina iniziò così l’opera di esegesi di Pasolini. La sua è un’interpretazione che nasce dalla conoscenza diretta del poeta-regista.
«La nostra amicizia - racconta - è cominciata per una naturale empatia: avevo incontrato un uomo eccezionale e forse, anche lui, è stato sfiorato da qualcosa di mio. Ci siamo indagati. Pasolini ricordava a Moravia: "Eh! caro Alberto vedi: quello che conta è avere la grazia dell’intelligenza delle cose...". Reputava che la conoscenza, la sapienza descritta da Gianbattista Vico, sia istantanea, folgorante, fondata sulla sensibilità più che basata sull’intelligenza. Pasolini diceva: "Zigaina è ontologico per me come io spero di esserlo per lui". Scriveva anche: "Scoprirsi ontologici l’uno per l’altro rende la vita più semplice e divinamente poetica». Quando poi mi salutava mi ripeteva sempre, sorridendo: «Ricordati che per essere bisogna essere in due!».
Cosa intendeva?
«Solo dopo la sua morte ho capito che quel ricorrente gioco linguistico rinviava a qualcosa di ovvio e, in un certo senso, a qualcosa di assolutamente indicibile. Pasolini si è sempre espresso attraverso contrasti: le anafore, gli ossimori, lo spostamento (verschibung) e il motto di spirito freudiano, la sospensione del senso con le tradizionali parentesi, gli enigmi... Reputava che un Autore per essere compreso avesse necessariamente bisogno di uno Spettatore che lo sapesse tradurre per trasmetterlo agli altri uomini. Tra Autore e Spettatore si innesca un "drammatico rapporto tra singolo e singolo democraticamente pari". In Poesia in forma di rosa Pasolini, prendendo atto della "caduta di ogni speranza di comprensione presso i destinatari della letteratura", comincia a pensare all’allegria del suicidio per una cerchia specializzata di destinatari».
Quindi si è sentito chiamato in causa da Pasolini?
«Certo. È il momento di chiarire: Pasolini ha definito la complessa attività della seconda metà della sua vita come un’"opera diacronica". Voleva esprimersi con "una sceneggiatura come struttura che vuol essere altra struttura". Questa formula usata dall’Autore in Empirismo eretico è riferita a quella sua "melassa plurilinguistica" (poesia, cinema, teatro, critica, sceneggiatura eccetera) che alla fine di un certo periodo di tempo è stata incrementata di senso dal linguaggio di un "martirio per autodecisione", ossia di una morte violenta da lui stesso voluta ed organizzata».
Seguendo la sua tesi, Pasolini, "regista-martire per autodecisione", si è fatto uccidere. Quali gli indizi per sostenere ciò?
«Il lettore "appassionato" deve individuare le formule con le quali Pasolini comunica al mondo il suo Progetto di morte certificato dall’aforisma che usa: "Anche un santo parla, in silenzio, con il corpo e con il sangue". L’Autore concepisce la (sua) morte sacrificale come estrema forma espressiva».
Quando?
«Pasolini concepisce quest’"eresia", intesa come la possibilità di trasgredire, alla fine degli anni Cinquanta. La prima generica valorizzazione della sua morte sul piano linguistico, Pasolini la fa con la poesia del 1960 intitolata significativamente La reazione stilistica. La "profezia" della sua morte violenta appare nella Poesia mondana del 25 aprile 1962. Il tragico fatto doveva compiersi nel 1969, ma, dopo l’incontro e l’amore per Maria Callas (amore da lei corrisposto e nato sul set di Medea nella laguna di Grado), decide di continuare a vivere fino al 1975, anno in cui avrebbe avuto l’ultima possibilità di farsi uccidere in un giorno sacro per eccellenza: domenica 2 novembre».
Perché questa data?
«Pasolini, fino a metà del 1968, pensava di farsi uccidere ritualmente nel mese di aprile. Sennonché rileggendo attentamente Mito e Realtà di Mircea Eliade si è convinto che "il mito va celebrato di notte, tra l’autunno e l’inverno, in una data sacra". Dopo di che, per essere il primo ad apportare un incremento di senso a tale data, organizza la sua morte per il Giorno dei Morti, il 2 novembre (secondo il calendario perpetuo), in coincidenza con la Domenica, sacra per eccellenza. Pasolini rivela tutto ciò nel poema Patmos, nome dell’isola greca dove San Giovanni scrisse l’Apocalisse. Apokalypsis ovvero rivelazione di una verità occulta».
Pasolini, un profeta?
«Un istinto di morte imperava in lui sin da bambino. Istinto incrementato da nuovi traumi che si disponevano in una consequenzialità del tutto inattesa: le intemperanze del padre, l’immenso amore per la madre, la scoperta della propria omosessualità, l’uccisione del fratello Guido, il processo per "corruzione di minore", l’espulsione dal Partito Comunista per "indegnità morale e politica", l’impossibile tenerezza per la Callas... Così, alla fine, decide di "chiudere" con la morte».
Una morte feroce, drammatica, poetica...
«Un rito culturale. Una morte sacrificale, attuata nell’ora, nel giorno e nell’anno, oltre che nei luoghi da lui prescelti – che avrebbe fatto della "fine di tutto" l’inizio di "Qualcosa"».
Cosa si augura oggi per Pasolini?
«Gli auguro di essere vivo nella memoria degli uomini come è vivo Dante Alighieri. Mi auguro che il lavoro di Pier Paolo Pasolini sia compreso fino in fondo dal maggior numero di giovani. Pasolini aveva scritto: "La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi"».