Un Codice Etico per il Sindacato
I vertici delle confederazioni sindacali maggiori si sono molto indignati per la battuta del presidente degli industriali Luca Cordero di Montezemolo sul rischio che il sindacato si riduca a «difensore dei fannulloni». Qualche ragione ce l'hanno: al di là della polemica sui fannulloni, non si può imputare a colpa del sindacato il fatto che esso difenda i lavoratori più deboli, i meno produttivi, poiché questo rientra nella sua funzione essenziale e ineliminabile. In quella battuta c’è però la denuncia di un rischio grave. Un rischio per il sindacato stesso, prima ancora che per l’intera collettività: che il sindacato si riduca a difendere solo i lavoratori meno produttivi, lasciando gli altri di fatto privi di rappresentanza.
È questo un rischio che il sindacato in Italia sta correndo in modo sempre più grave ed evidente. Nel settore pubblico, innanzitutto, dove la disponibilità a una politica di differenziazione dei trattamenti in funzione dell'efficienza delle strutture amministrative e del merito individuale, manifestata genericamente da Cgil, Cisl e Uil nel Memorandum firmato col governo nel gennaio scorso, è vistosamente contraddetta dal loro comportamento effettivo non appena si tratta di passare alle misure concrete. È sotto gli occhi di tutti il violentissimo fuoco di sbarramento che le tre confederazioni hanno aperto contro la proposta del ministro Nicolais di affidare a una commissione centrale indipendente il compito di attivare e garantire gli strumenti di valutazione, controllo e trasparenza in ciascun comparto dell'impiego pubblico.
Ma quello di privilegiare troppo i meno produttivi è un rischio che — sia pure in misura minore — il sindacato corre anche nel settore privato. Quando dal lavoro manuale si passa al lavoro impiegatizio, è tipico e in qualche misura inevitabile che siano più propensi a impegnarsi nella militanza sindacale i lavoratori meno assorbiti dal proprio lavoro, quelli che da esso traggono minori soddisfazioni; e quindi anche il fatto che le iscrizioni si addensino nella parte più debole degli appartenenti a ciascuna categoria. Questo fenomeno, però, sconfina nella patologia quando accade addirittura — e questo si verifica con una frequenza davvero eccessiva, al punto da essere considerato normale da chi si occupa professionalmente di gestione delle risorse umane — che il sindacato entri per la prima volta in una azienda per iniziativa di un lavoratore che ha commesso una grave mancanza e che si fa nominare rappresentante sindacale per ottenere una protezione impropria contro il probabile licenziamento; o comunque che il sindacato offra con grande facilità i galloni di r.s.a. al lavoratore cui è stata appena notificata (o sta per esserlo) la contestazione disciplinare; oppure a un lavoratore che usa permessi e aspettative sindacali per i propri comodi privati. Quando la rappresentanza in azienda si costituisce su queste basi, è il Dna del sindacato a subire una degenerazione; e la sua missione effettiva viene percepita dalla generalità dei lavoratori non come quella di proteggere i più deboli, ma come quella di abbassare il livello minimo dovuto di correttezza e di impegno produttivo. Qui c’è un evidente conflitto d’interessi; e il sindacato dovrebbe — per il proprio buon nome, prima di tutto — darsi un codice etico che individui esplicitamente quel possibile conflitto e impedisca il diffondersi del fenomeno.
Più in generale, il sindacato deve curare — con attenzione molto maggiore di quanto non faccia oggi — che il proprio naturale e doveroso impegno nella difesa della parte più debole dei lavoratori si coniughi con il riconoscimento e la difesa anche dell'interesse della parte più forte professionalmente e più produttiva. Altrimenti, prima o poi quest'ultima si ribella. È già accaduto nel 1980 con la «marcia dei 40.000». Gli errori del sindacato che hanno generato allora quella rivolta non sono molto diversi da quelli cui assistiamo oggi; soprattutto nel settore pubblico, dove il sindacato è più forte e quindi più capace di imporre la propria legge.
Commenti
Partito politico
Oramai, con tutte le degenerazioni che ha giustamente denunciato Ichino, il sindacato è diventato un vero e proprio partito politico la cui indubbia forza sostiene ed influenza fortemente la politica della maggioranza di governo che blocca con il suo indubbio potere d'interdizione qualsiasi tentazione riformistica che ci può essere in Italia.
E allora, a questo punto, cosa fare perchè tutto ciò cambi? Molto semplice, dare una maggioranza schiacciante al centrodestra, nemico storico del sindacato, e sperare, dico sperare, che questo poi trovi la forza d'imporre decisioni che un altro governo di altro colore politico sarebbe difficile fare. Certo, il rischio che potrebbe avere un governo che imponga determinate decisioni è quello di provocare un duro conflitto sociale, con tutte le conseguenze che questo può comportare però, dico io, sarebbe anche ora di finirla con questa politica del volemose bene che, a mio modesto parere, tanti danni ha portato all'Italia, della serie "Sarebbe anche ora che in Italia ci sia un governo che governi!".
PS. Altra soluzione al problema per me è quella di modificare profondamente una legge elettorale che altro non fa che produrre ingovernabilità, e quindi non governo.
Daniele