Poletto: come Chiesa non ci siamo fatti sentire abbastanza per difendere il giorno del Signore
Recuperare la coerenza nell’essere cristiani significa anche saper pronunciare dei “no“. Uno è quello nei confronti dello shopping domenicale che il vescovo di Concordia-Pordenone, Ovidio Poletto, invita a boicottare. Nell’intervista rilasciata al Messaggero Veneto, l’alto prelato esprime la vocazione al sociale e al dialogo interreligioso che accoglie la richiesta dei musulmani di poter pregare in un luogo di culto anche a Pordenone. Lavoro e famiglia, poi, uniti dalla stessa considerazione, ovvero il rispetto dei valori fondamentali, il rifuggire un relativismo che incide sulla qualità della vita e rende fragili i rapporti matrimoniali.
Il suo impegno pastorale l’ha portata in questi anni in tutta la Diocesi: parlando con la gente che incontra, quali sono a suo avviso i problemi più avvertiti, le urgenze delle quali chi ha responsabilità morali e istituzionali deve farsi carico?
«Ascolto molte persone che mi confidano preoccupazioni di diverso genere. Su tutte prevalgono quelle che riguardano le difficoltà della vita di coppia e l’educazione dei figli. Come Chiesa mettiamo molto impegno su questo fronte. Auspico che anche le istituzioni e chi ha delle responsabilità sociali e politiche metta al centro dei programmi e degli interventi di propria competenza la famiglia e i giovani. La tenuta della famiglia e il futuro delle nuove generazioni non sono una sfida solo per la Chiesa, ma per tutta la società».
Anche la domenica, ormai, non è più considerata il giorno del riposo e della vicinanza alla famiglia: centri commerciali aperti; flessibilità del lavoro che impone la turnazione nei festivi; il senso di una società che seppur ricca paga un prezzo alto sul fronte della tutela dei valori. Lei avverte questi disagi? La Chiesa, su questi temi, non ha fatto sentire una voce troppo flebile?
«È vero, come Chiesa abbiamo fatto sentire forse non a sufficienza la nostra voce. È pur vero che a livello nazionale più volte noi vescovi siamo intervenuti per salvaguardare il senso della festa. Anche recentemente, nel convegno nazionale della Chiesa italiana a Verona, un ambito di lavoro aveva come tema quello del rapporto tra lavoro e festa. Ma gli interventi della Chiesa vengono spesso considerati come roba scontata, quasi di chi ha paura di perdere clientela per la messa domenicale. A me pare che non nuocerebbe un pò più di coraggio da parte dei cristiani nell’essere disposti anche a boicottare lo shopping nel giorno del Signore».
In questi anni lei è stato protagonista di un’azione finalizzata al dialogo interreligioso: nella stessa comunità cristiana quante difficoltà ha incontrato e non teme che le paure del diverso e del terrorismo, anche tra i cattolici, rendano questo percorso sempre più difficile?
«La Chiesa diocesana non ha mai dimostrato di temere il dialogo. Ha promosso e mantenuto costanti rapporti con le altre comunità cristiane e anche con alcuni rappresentanti della religione ebraica e musulmana. Teme il dialogo solo chi ha una fede debole. Quanto al terrorismo è naturale che tutti abbiamo paura. Ma il terrorismo c’entra ben poco con il dialogo interreligioso. Cerchiamo di non confondere terrorismo e questioni di religione: occorre saper distinguere bene».
La società multiculturale, garantendo la tutela del diritto di espressione religiosa, legittima la costruzione di una moschea di cui la comunità islamica a Pordenone avverte la necessità?
«Quanto la comunità islamica di Pordenone avverta la necessità di una moschea, non è dato a me saperlo. Questa domanda bisogna farla a loro. A Pordenone ci sono luoghi di preghiera di Scientology, dei Sikh, dei Testimoni di Geova e altri. Ogni gruppo che lo desideri si può incontrare. Viviamo, ringraziando Dio e i nostri padri, in una società democratica. Non vedo perché i musulmani non possano incontrarsi per pregare nel rispetto di quelle condizioni che reggono la convivenza. In ogni caso è un problema che spetta alle autorità civili gestire con saggezza e nel rispetto delle leggi».
Il premio nobel per l’Economia, Amarytia Sen, nel suo ultimo libro, ammonisce contro un modello di società multiculturale che invece di integrare nel rispetto delle tante identità diverse, produce comunità tra di loro chiuse, dove alla fine anche il rispetto delle leggi dello Stato non è un valore condiviso. «Il multiculturalismo - scrive - che pone l’accento su libertà e ragione va distinto dai “monoculturalismi plurimi“ con rigida cementazione delle divisioni». La provincia di Pordenone, pur avendo una percentuale di stranieri tra le più alte d’Italia, ha retto in questi anni l’impatto di un’immigrazione così forte: non teme, però, che ci sia il rischio di frammentare la società in comunità separate?
«Sperimentiamo una novità sociale di grande portata culturale. Gli immigrati in provincia di Pordenone hanno raggiunto il 9 per cento nel giro di pochi anni. Questa novità ha bisogno per essere affrontata dell’impegno da parte di tutti. Il rischio che si formino dei gruppi sociali chiusi ed impenetrabili c’è. Finora mi sembra non è capitato, e di questo va dato merito a tutti, in particolare a chi ha operato per la convivenza e non si è limitato a lanciare allarmi o a evidenziare pericoli. Tuttavia occorre fare di più sul piano culturale. Conoscere e farsi conoscere: dovrebbe essere la preoccupazione da condividere con tutte le oltre cento nazionalità presenti sul nostro territorio».
Lei ritiene che in pubblico una donna musulmana abbia il diritto a fasciarsi il viso con il velo?
«Sul velo si sono schierati gli estremisti da una parte e dall’altra, tutti con la pretesa di voler difendere le donne. Giova ricordare che un conto è il velo e un conto è il burqa».
La crisi della Bisazza testimonia come la provincia di Pordenone non sia immune dalla difficile congiuntura economica: in questo caso, l’azienda, pur crescendo, decide di riorganizzarsi chiudendo uno stabilimento. Lei è stato vicino ai lavoratori: non ritiene che si debba recuperare, da parte degli imprenditori, il concetto di responsabilità sociale nel fare impresa?
«In occasione della mia visita allo stabilimento della Bisazza di Spilimbergo ho detto ai lavoratori che il profitto di una fabbrica non è solo frutto della capacità e del lavoro degli imprenditori, ma altrettanto di quello dei lavoratori. Vorrei dire al titolare della Bisazza: lei chiude una fabbrica che funziona, dove hanno dato il meglio di sé centinaia di dipendenti. È sicuro di essersi comportato da vero imprenditore e da uomo di coscienza e che non può sottrarsi alla responsabilità di valutare che quanto decide ha conseguenze pesanti nella vita dei suoi dipendenti?».
Non ritiene che la dimensione del lavoro, anche come gratificazione economica, abbia prevalso sull’attenzione verso la famiglia?
«Nella zona del mobile, dove si è tenuta una serie di incontri sulla situazione lavorativa ed occupazionale, si è parlato di qualità del lavoro come fattore che incide sulla qualità della vita. Il lavoro, quando è luogo di realizzazione personale, diventa una risorsa, non solo economica, per la famiglia. Ma quando c’è un eccessivo investimento di tempo e di energie per ottenere successo nel lavoro, perché il successo viene percepito come unico parametro per misurare la riuscita sociale, si possono danneggiare i legami affettivi e le relazioni familiari, fino a compromettere il riposo e la domenica».
La società sta cambiando e anche a Pordenone il numero di matrimoni civili supera quelli religiosi: è una sconfitta per la Chiesa?
«Prima di parlare di matrimonio civile o di matrimonio religioso, occorre renderci conto che il problema grave è la fragilità dei matrimoni. La Chiesa sarebbe sconfitta se non facesse niente. L’impegno che mettiamo per un’educazione che risvegli il coraggio delle decisioni definitive, decisioni che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la libertà, è finalizzato proprio a far maturare e crescere l’amore in tutta la sua bellezza e quindi a dare consistenza e significato alla stessa libertà. D’altra parte non si può continuare a banalizzare il rapporto uomo-donna in tutti i modi e poi gridare ipocritamente allo scandalo, dicendo che i matrimoni non durano».
Al di là del rito, per l’appunto, l’aumento delle separazioni e dei divorzi testimonia come i legami siano meno forti: il concetto di famiglia è destinato a cambiare?
«Il concetto di “famiglia“ è già cambiato. Oggi si sente parlare di “famiglie“. Ma devo anche dire che il desiderio di famiglia tra i giovani è sempre molto alto. Mi domando però quanto sono aiutati a costruire famiglie solide».
In consiglio comunale a Pordenone si è parlato molto delle coppie di fatto: lei avverte che ci sia la necessità di una tutela legislativa delle persone che convivono pur non essendo unite in matrimonio?
«Mi sa che si va avanti a colpi di slogan: “coppie di fatto sì, coppie di fatto no“. A me sta a cuore che la tutela legittima dei diritti personali non vada a scapito della promozione della famiglia fondata sul matrimonio. Non si possono mettere sullo stesso piano situazioni oggettivamente diverse».
Domani ricorre il sesto anniversario della sua ordinazione episcopale ricevuta nella cattedrale di Vittorio Veneto: in questi anni di guida della Diocesi di Concordia-Pordenone, quale aneddoto conserva nella sua memoria con più affetto e quale amarezza le rimane?
«È un pò presto per raccontare aneddoti e tirare le somme. Spero che il buon Dio mi dia ancora un pò di tempo per lavorare. Il più bello deve ancora venire».