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NUOVO CARCERE DI PORDENONE...TRA LEASING E PROGETTI PADANI

Per approfondire il tema del carcere di Pordenone apro questo argomento, partendo da un articolo uscito sul Manifesto due anno fa. Beppe, dacci un'occhiata!

La finanza creativa carceraria
Dario Stefano Dell'Aquila
tratto da "il manifesto", 11 luglio 2004

Come sta cambiando, senza rumore, la struttura del sistema carcerario. Nuove carceri in leasing, patrimonio storico ceduto e un piano straordinario di edilizia penitenziaria a misura di Lega. Nuove carceri a Varese, Pordenone e Milano. E il carcere di Pordenone costa oggi in leasing il triplo di quanto previsto.

Il ministro della giustizia Castelli è il promotore di una «riforma» a base di fatti compiuti: serve ad allargare il business degli amici costruttori e ad accarezzare la voglia di sbarre degli elettori di destra del nord. Con i nuovi sistemi di leasing, scopiazzati dagli Usa, lo stato spenderà di più, la sicurezza sarà inferiore e i detenuti staranno peggio.

Una nuova e particolare forma di privatizzazione si profila in un settore sino ad ora completamente pubblico, quello degli istituti di pena. La situazione in cui versa il sistema penitenziario italiano è assai grave e in rapida evoluzione. Nel 1990 i detenuti erano circa 25.000, oggi sfiorano la soglia dei 60.000 - la cultura della tolleranza zero ha prodotto in questi anni i suoi frutti, riempiendo gli istituti di immigrati e tossicodipendenti. La capienza, una stima che il ministero cambia di volta in volta in base a criteri misteriosi, era di 36.000 posti nel 2001, è di 42.000 nel 2002. Il programma ordinario non dovrebbe andare oltre la creazione di 6000 nuovi posti a breve-medio termine. Da sempre molti giuristi insistono sulla necessità di una riscrittura del codice penale, sull'urgenza di una depenalizzazione, opzione cui persino la Lega, almeno per i reati di opinione, tempi addietro si era mostrata favorevole. Poi evidentemente si è compreso che la costruzione di nuove carceri, con gli strumenti della finanza creativa, non è meno conveniente degli anni passati, in cui i vincoli di bilancio si violavano senza tanta fantasia. Anzi. Un bel carcere fa contenti gli amici costruttori e la gente si sente più sicura. E così il piano straordinario di edilizia penitenziaria, che è anche un buon motivo di campagna elettorale in terre amiche, prevede come obiettivo prioritario la Lombardia e il Friuli Venezia Giulia...

Piano straordinario
Il piano straordinario prevede infatti la costruzione di nuovi istituti di pena a Varese (43 milioni di euro) e a Pordenone (32 milioni), più la ristrutturazione di Milano Bollate (17 milioni di euro) con lo strumento della locazione finanziaria, meglio noto col nome inglese, leasing. Un modo elegante per dire che lo stato prenderà in fitto le prigioni da un privato, per poi riscattarle al termine del contratto. Ma cosa si nasconde dietro questo insolito modello di economia della pena?

Per sapere dove ci porta il futuro bisogna, come sempre, dare uno sguardo al passato. Nonostante le gravi condizioni in cui versa la maggior parte degli istituti di pena italiani, nel nostro paese la spesa per l'edilizia penitenziaria non è mancata. Tutt'altro. Nel corso di 30 anni, dal primo piano ordinario di edilizia penitenziaria del 1971 alla legge finanziaria del 2000, sono stati investiti circa 5.600 miliardi di lire. Ultimo in ordine di tempo, lo stanziamento complessivo di 800 miliardi di lire, ultimo atto del centrosinistra prima del governo Berlusconi.

Di queste somme, investite in base a priorità modificate con diverse varianti, rimane oggi ben poco. Rimangono circa 330 milioni di euro già impegnati e un passato di scandali, tangenti e corruzione, in qualche caso messi in luce dalla magistratura. Una gestione disinvolta sul piano finanziario che spesso, per ammissione della stessa amministrazione penitenziaria, rende difficile seguire le tracce contabili delle risorse, impegnate in un capitolo e poi spese per altre voci. Gli ultimi fondi disponibili, in via ordinaria, serviranno a completare i lavori di ristrutturazione in 10 istituti (in tutta Italia ve ne sono 230) e a costruirne altri 9. Poi basta, a meno che non si proceda a nuovi stanziamenti.

Un carcere nella città natia
L'ultimo istituto di pena, inaugurato appena qualche settimana fa dal ministro della giustizia Roberto Castelli, nel proprio collegio elettorale e nella propria città natia, Lecco, è uno dei frutti di quel residuo di risorse lasciato dal centrosinistra. Dopo, a leggere i bilanci, solo lacrime e sangue. Eppure il ministro Castelli non appare affatto scoraggiato e annuncia la costruzione di nuove carceri, a cominciare da Varese e Pordenone, annunciando il ricorso alla «finanza creativa». E' questo infatti l'elemento più importante in un piano straordinario che si limita alla costruzione di due soli nuovi istituti e alla ristrutturazione di Milano Bollate. Per la prima volta si ricorre a una nuova forma di finanziamento che modifica il rapporto pubblico-privato e apre la strada ad un futuro di privatizzazioni.

Nel caso in questione si farà ricorso alla locazione finanziaria o leasing. Il leasing prevede il pagamento di un canone mensile e l'opzione di acquisto finale del bene. Anche questa opzione è purtroppo un lascito maldestro del centrosinistra. La finanziaria del 2000 (la 388/2000) ha introdotto la possibilità che l'amministrazione penitenziaria, per l'acquisizione di nuovi istituti di pena, faccia uso della locazione finanziaria, e della finanza di progetto. Ipotesi che di fatto inseriscono il capitale privato nella gestione e nella valorizzazione dell'investimento pubblico. La finanza di progetto, o project financing, prevede infatti che il privato partecipi insieme al capitale pubblico alla realizzazione di un opera di interesse collettivo. In cambio ne manterrà la gestione per tutti gli anni necessari a recuperare i capitali investiti e i relativi interessi.

Modello Tremonti
Le idee insomma erano lì e al buon Castelli non è rimasto altro che metterle in pratica, inserendo la questione dell'edilizia penitenziaria nella più generale dismissione del patrimonio pubblico, ideata dal ministro Giulio Tremonti e gestita attraverso la Patrimonio spa.

Come infatti ricordava Franco Corleone in un recente articolo, questo processo di privatizzazione passa attraverso la Dike spa.

Nel maggio del 2003 il consiglio di amministrazione della Patrimonio Spa, la società controllata dal ministero del tesoro nata allo scopo di gestire il processo di dismissione del patrimonio pubblico, deliberava la costituzione di una nuova società per la realizzazione dei piani di edilizia penitenziaria. Dopo appena due mesi, il ministro della giustizia presentava alla stampa la Dike Aedifica spa, società «per la realizzazione dei programmi di edilizia carceraria» controllata, appunto, dalla Patrimonio spa. A presiederla è stato chiamato il professore Adriano De Maio, rettore dell'Università Luiss. Il consiglio d'amministrazione è formato dai rappresentanti dei ministeri della giustizia e dell'economia e della stessa Patrimonio spa.

Tra tutte spicca, in quanto brillante sintesi dei nuovi indirizzi governativi, la nomina a consigliere delegato di Vico Valassi, già presidente dell'Associazione nazionale costruttori edili (Ance). Lo scopo della società, recita lo scarno comunicato ufficiale, è «di contribuire allo sviluppo del sistema carcerario utilizzando l'edilizia penitenziaria storica quale leva di finanziamento per le infrastrutture carcerarie moderne, riducendo così anche gli oneri a carico della finanza pubblica». E non c'è dubbio che l'ex presidente dell'Ance sia l'uomo giusto.

Patrimonio in svendita
In questa frase sta tutto il senso dell'operazione. Lo stato venderà il proprio patrimonio immobiliare (e relativi terreni edificabili), per affittare (e poi forse poi rilevare un giorno) nuovi istituti di pena. La Dike infatti conferirà alla Patrimonio circa ottanta istituti di pena. Compito della Patrimonio sarà quello di venderli per finanziare l'affitto dei nuovi istituti, i cui appalti saranno determinati dalla Dike. Al momento sono undici (Casale Monferrato, Novi Ligure, Mondovì, Elusone, Ferrara, Frosinone, Avigliano, Velletri, Pinerolo, Susa e Verona) gli istituti che la Dike ha già conferito alla Patrimonio. Gli altri, a quanto risulta già individuati dal ministero della giustizia, saranno ceduti dopo aver sentito il parere del ministero dei beni culturali e degli enti locali coinvolti.

Al momento la prima stima attendibile di questa fase è di circa 530 milioni di euro: la somma che la Patrimonio Spa ha ottenuto dalla Cassa depositi e prestiti per la realizzazione dei nuovi progetti di edilizia penitenziaria.

Poche ma fondate le critiche delle opposizioni. Si legge nell'interrogazione parlamentare presentata alla camera il 31 luglio 2003 dai deputati Giuseppe Fioroni e Giuseppe Fanfani che «a tutt'oggi si rileva una sostanziale assenza di controlli sulle scelte che tale società andrà a compiere e che non è contemplato alcun obbligo di relazionare alle Commissioni parlamentari competenti, né viene previsto un organismo di indirizzo e verifica dell'attività della società, mentre, essendo società privata a totale capitale pubblico e operante sui beni pubblici, essa dovrebbe dare conto del suo operato, con particolare riguardo alla gestione, valorizzazione ed eventuale alienazione del patrimonio demaniale».

Al senato, in commissione giustizia, analoghe critiche sono state mosse da Nando Dalla Chiesa, di fronte ad un imperturbabile ministro Castelli che si trincera dietro i vincoli di bilancio e la ragioni dell'efficienza.

Leasing oneroso
Ma le argomentazioni del ministro non sembrano fondate. Lungi dall'essere uno strumento conveniente il leasing è molto più oneroso della semplice acquisizione di un bene immobile o della contrazione di un normale mutuo. Il vantaggio infatti è tutto sul piano finanziario. Il leasing consente di iscrivere in conto corrente, spese che altrimenti andrebbero iscritti in conto capitale, simulando così minori uscite.

Non è affatto uno strumento che migliora l'efficienza, e non diminuisce i costi. Lo sanno benissimo quelle centinaia di migliaia di persone che ogni anno acquistano la propria casa con un mutuo e non in leasing. Se non ci credete basta dare un'occhiata ai numeri. Il carcere di Pordenone, previsto dal ministro nel piano straordinario, era stato inizialmente pensato con il finanziamento ordinario e il costo stimato era di 20 miliardi di lire. Nel 2003 il ministero ci ripensa e decide di inaugurare la stagione del leasing. La stima prevista è adesso di 32,5 milioni di euro, circa tre volte tanto, per un carcere dalla capienza di un centinaio di detenuti. Non sembra un buon affare, almeno per lo stato.

ecco un vecchio articolo della PADANIA

CASTELLI: AL LAVORO PER GUARIRE I MALI DELLE NOSTRE CARCERI

PIER LUIGI PELLEGRIN
Il problema dell’indulto di scena anche a Pordenone, dove il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha visitato la casa circondariale della città nella previsione di costruirvi presto un nuovo carcere. Il Guardasigilli ha spiegato per quali motivi l’azione parlamentare deve assolutamente svolgersi in tempi rapidi.
«La questione dell'indulto - ha affermato Castelli - sta andando avanti da troppo tempo e va risolta velocemente per due buoni motivi: perché c’è un Paese che attende le numerose importanti leggi di riforma che il governo ha presentato e perché i detenuti hanno il sacrosanto diritto di sapere come sarà sciolto questo dilemma, che per loro è ovviamente molto importante». Sull’argomento si era recentemente espresso anche il presidente della Camera, Pierferdinando Casini, che durante una visita al carcere di San Vittore aveva ribadito quanto più volte affermato proprio da Castelli, ovvero che costituzionalmente l’indulto è materia parlamentare. «Vedremo cosa deciderà il Parlamento - commenta Castelli - intanto il ministero della Giustizia è pronto a gestire la situazione sia in uno che nell’altro caso». Castelli ha poi precisato che «oggi la popolazione carceraria è salita a 56.000 unità, 500 in più in un anno, non una crescita esponenziale come dice la sinistra. Semmai, il 90% dei delitti rimane impunito». Il Guardasigilli ha anche ricordato che tra le ipotesi di cui sta discutendo la maggioranza c’è anche quella di giungere a due concorsi diversi per giudici e pm.
L’esponente del Carroccio si è poi soffermato sulla costruzione del nuovo carcere di Pordenone, un problema definito “urgente

Dario Stefano Dell’Aquila

Premessa

La scrittura, in ogni sua forma, presenta sempre delle difficoltà. Queste difficoltà fanno parte dell’esperienza di ogni ricercatore, e per quanto possa essere oscuro il campo di una ricerca, è sempre consentito a chi scrive e racconta una via d’uscita, metodologicamente valida. Eppure accade che quando si scrive di una istituzione totale i dubbi e le perplessità si moltiplichino. Perché quando scriviamo di o sul carcere parliamo, in ultima analisi, di corpi, di persone, di uomini e donne che patiscono la pena più grande che il nostro codice prevede, la privazione della libertà. Quando un corpo diviene prigioniero una prima e importante mutazione lo coglie. Da quel momento non sarà mai più soggetto. Oggetto di un potere giudiziario, di uno amministrativo, di uno medico, di uno sociologico, quel corpo avrà un numero di matricola, un fascicolo, un trattamento, ma non avrà più voce. Per lui parleranno avvocati, magistrati, psicologi, educatori, direttori d’istituto, agenti di polizia, volontari, ed eccezionalmente anche giornalisti o ricercatori, ma la sua voce, il suo racconto diretto si perderà, inesorabilmente, nelle pieghe di una istituzione totale. Poco importa se dopo quella persona detenuta potrà parlare, quando parlerà da persona libera non sarà più la stessa cosa. Parlerà della propria esperienza, ma non del proprio presente. Perché il carcere è questo: l’alterazione dello spazio, del tempo e delle relazioni, per un racconto senza parola. Ai detenuti è data scrittura, ma non parola. Chi scrive è consapevole di questa situazione e ne è impotente vittima. L’unico piccolo e illusorio sollievo è rappresentato dal fatto che queste parole, scritte per altri, possano essere, in qualche modo, un piccolo passo nella direzione della libertà e del superamento delle istituzioni totali così come oggi le concepiamo.

1. Introduzione: da Poggioreale allo Stato penale

Il carcere di Poggioreale, a Napoli, è a pochi centinaia di metri dal Centro Direzionale, che ospita importanti uffici, tra cui il consiglio regionale e i suoi organismi. Dai piani alti è possibile distinguere con chiarezza i profili della struttura, che imponente si staglia per centinaia di metri. All’interno i padiglioni, tutti con il nome di città (Genova, Salerno, Milano, Avellino, etc.), disegnano una struttura ottocentesca che ben si adatta alle nuove esigenze della pena. Il numero dei reclusi oscilla, fino ad arrivare a punte di 2.500 (su una capienza di 1.400 posti), con celle che ospitano sino a 18 detenuti, con letti a castello impilati per tre. Nell’istituto altri 2.000 agenti badano alla sicurezza, una trentina di persone alla parte amministrativa, e c’è un via vai di magistrati, avvocati, parenti in visita, nuovi ingressi. In un giorno almeno 5.000 persone hanno a che fare con il carcere, la suo eco, le sue voci, accompagnate dal rumore dei cancelli.

A Secondigliano, nella periferia della città, il nuovo carcere, costruito nel 1991, ospita altre 1.600 persone, in condizioni strutturali certo più umane (celle a due o quattro posti), ma non con meno tensioni. Dal giorno della sua inaugurazione l’istituto è stato al centro di due processi per maltrattamenti e di storie non proprio limpide. Anche qui, intorno alla struttura si muovono gli umori di migliaia di persone, ogni giorno.

Se volessimo proseguire la nostra immaginaria visita, potremmo poi vedere, nel breve giro di qualche chilometro i due Ospedali Psichiatrici Giudiziari, a Napoli e Aversa, il carcere femminile di Pozzuoli, l’istituto minorile di Nisida. Se volessimo poi vederli tutti gli istituti di pena della regione avremmo il nostro bel girare, perché in Campania di carceri ve ne sono ben 18, ognuno con le sue particolari caratteristiche.

Ma quella campana, per quanto particolare, non è un’eccezione. Nel nostro paese vi sono circa 230 istituti e circa 44.000 agenti di polizia penitenziaria.

In Campania, nell’ultimo anno, il 2003, si è registrata una punta di circa settemila detenuti [1]. La seconda regione d’Italia. Il dato, in costante crescita, è in linea con quello nazionale. Nel 1990 in Italia vi erano circa 25.000 detenuti, nel 2003 il dato sfiora le 60.000 presenze, per un terzo immigrati e per un altro terzo tossicodipendenti. Di questi oltre la metà proviene da regioni meridionali. Solo il 4% della popolazione detenuta è condannato per reati legati alla criminalità organizzata.

Quello che Pierre Bourdie [2] ha definito il passaggio dallo stato sociale allo stato penale non è una caratteristica italiana. Anzi. Il tasso di detenzione in Italia è ormai pari a quello degli altri paesi cosiddetti sviluppati. Su tutti svettano gli Stati Uniti d’America, che saranno anche il paese della libertà, ma contano circa 3.000.000 di abitanti incarcerati. La politica della tolleranza zero, ormai a livello globale, dà i suoi poveri frutti.

Sarà una considerazione banale, ma meglio farla. In carcere, in Campania come in Italia, ci sono soprattutto disoccupati, immigrati e tossicodipendenti. Su una rilevazione pari al 46,4% della popolazione, 1.772 (25,5%) erano disoccupati, 153 (2,2%) in cerca di occupazione, 846 (12,19%) occupati, 180 studenti (2,2%). Per le donne (campione dell’80%) il 12,08% (32) era occupato, disoccupato il 19,25% (51), casalinga il 27% (72), in cerca di occupazione il 16,23% (43).

Complessivamente, gli stranieri internati a livello nazionale sono 17.004, il 30% dell’intera popolazione detenuta. La Campania, con 744 detenuti stranieri, ha una media del 10,7%, di gran lunga inferiore a quella nazionale, che è pari al 30% della popolazione detenuta.

I detenuti tossicodipendenti sono 1.556, il 22,4% della popolazione detenuta. Per le donne la percentuale di tossicodipendenti è del 15,8% (42), mentre per gli uomini è del 23,3% (1.514). Sono in trattamento metadonico 32 uomini e 2 donne, pari rispettivamente al 2,10% per gli uomini e al 4,7%, per le donne della popolazione tossicodipendente. Sono tossicodipendenti 124 stranieri (di cui due donne), pari al 16% del totale degli stranieri reclusi in Campania, e all’8% del totale dei tossicodipendenti uomini [3].

Con un importante libro, Nils Cristhie [4] ha interpretato uno degli effetti della pan-penalizzazione, introducendo, nell’analisi sociologica, il paradigma del business penitenziario.

In effetti i legami tra le tipologie della pena e i rapporti economici sono stati oggetto di una celebre analisi da parte di autori [5] della Scuola di Francoforte che, già nel 1936, ne individuavano le connessioni con la disponibilità della forza lavoro, aprendo il filone di pensiero dell’economia politica della pena.

Negli ultimi anni, nonostante le aspettative illuministe, il carcere è emerso non solo in tutta la sua funzione classista, ma le politiche penali hanno sostituito quelle pubbliche, determinando un progressivo incarceramento di alcune fasce della popolazione.

Ma il carcere produce anche una propria economia, nelle settore dell’edilizia penitenziaria così come in quello degli agenti preposti alla sicurezza.

Negli Stati Uniti, così come in Inghilterra, si è già avviata una fase di privatizzazione degli istituti di pena, sia nella loro costruzione che nella loro gestione. Inevitabilmente le condizioni di vita penitenziaria sono notevolmente peggiorate.

Nonostante ciò il ministro della giustizia italiano si è recato personalmente negli Stati Uniti per rimanere entusiasta di quel sistema di esecuzione della pena. Ed ecco che anche in Italia si è avviata la fase delle privatizzazioni, che seppure in fase embrionale designa un nuovo modello di business penitenziario. Quello dell’edilizia. In questo campo di potere si inserisce anche una linea di sottopotere, dettata dalla particolarità politica del partito del ministro della Giustizia, Roberto Castelli, che come è noto non ama il sud, nemmeno quando si parla di carcere.

2. La finanza creativa e il detenuto in leasing

Si è molto parlato, nel dibattito italiano, dell’utilizzo spensierato delle risorse statali, elaborato dall’ex ministro Giulio Tremonti e che va sotto il nome di finanza creativa. Poco si è scritto e detto sul fenomeno che riguarda l’applicazione di questi strumenti (più che di finanza creativa potremmo definirla onerosa) che introducono un nuovo modello di business penitenziario.

2.1 Un programma a misura di Lega

Come abbiamo detto i detenuti in Italia sono circa 60.000. La capienza tollerabile, stima che il Ministero di volta in volta cambia in base a misteriosi criteri, è di 42.000 posti.

Gli esperti insistono sulla necessità di una depenalizzazione, opzione cui persino la Lega Nord, almeno per i reati di opinione, tempi addietro si era mostrata favorevole. Poi si è compreso che la costruzione di nuove carceri, con gli strumenti della finanza creativa non è meno conveniente degli anni passati, in cui i vincoli di bilancio si violavano senza tanta fantasia. Anzi. Un bel carcere fa contenti gli amici costruttori e la gente si sente più sicura. E così il piano straordinario, che è anche un buon motivo di campagna elettorale in terre amiche, indica come obiettivo prioritario la Lombardia e il Friuli Venezia Giulia.

Il piano straordinario per l’edilizia penitenziaria prevede infatti la costruzione di nuovi istituti di pena a Varese (43 milioni di euro) e a Pordenone (32 milioni), più la ristrutturazione di Milano Bollate (17 milioni di euro) con lo strumento della locazione finanziaria, meglio noto con il nome inglese, leasing. Un modo elegante per dire che lo Stato prenderà in fitto le prigioni da un privato, per poi riscattarle al termine del contratto. Ma cosa si nasconde dietro questo insolito modello di economia della pena?

Per sapere dove ci porta il futuro bisogna, come sempre, dare uno sguardo al passato.

Nonostante le gravi condizioni in cui versa la maggior parte degli istituti di pena italiani, nel nostro paese la spesa per l’edilizia penitenziaria non è mancata. Tutt’altro.

2.2 Le carceri d’oro: 5600 miliardi in 30 anni

Nel corso di 30 anni, dal primo piano ordinario di edilizia penitenziaria del 1971 alla legge finanziaria del 2000, sono stati investiti circa 5.600 miliardi di lire.

Ultimo in ordine di tempo, lo stanziamento complessivo di 800 miliardi di lire, ultimo atto del centrosinistra prima del governo Berlusconi.

Di queste somme rimane oggi ben poco. Rimangono circa 330 milioni di euro già impegnati e un passato di scandali, tangenti e corruzione, in qualche caso messi in luce dalla magistratura. Una gestione disinvolta sul piano finanziario, che spesso, per ammissione della stessa amministrazione penitenziaria, rende difficile seguire le tracce contabili delle risorse, impegnate in un capitolo e poi spese per altre voci.

Gli ultimi fondi disponibili serviranno a completare i lavori di ristrutturazione in 10 istituti (in tutta Italia ve ne sono 230) e a costruirne altri 9. Poi basta, a meno che non si proceda a nuovi stanziamenti.

Uno degli ultimi istituti di pena frutto del residuo di risorse lascito del centrosinistra, è stato inaugurato dal Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, nel proprio collegio elettorale e nella propria città natia, Lecco. Dopo, a leggere i bilanci, solo lacrime e sangue.

2.3 La Finanza Creativa e il detenuto in leasing

Eppure il ministro Castelli non appare affatto scoraggiato e annuncia la costruzione di nuove carceri, a cominciare da Varese e Pordenone, annunciando il ricorso alla finanza creativa.

Nel caso in questione si farà ricorso alla locazione finanziaria o leasing. Il leasing prevede il pagamento di un canone mensile e l’opzione di acquisto finale del bene. Anche questa opzione è purtroppo un lascito maldestro del centrosinistra, una legge (la 388/2000) che prevede la possibilità che l’amministrazione penitenziaria, per l’acquisizione di nuovi istituti di pena, faccia uso della locazione finanziaria e della finanza di progetto. Ipotesi che di fatto inseriscono il capitale privato nella gestione e nella valorizzazione dell’investimento pubblico. La finanza di progetto, o project financing, prevede infatti che il privato partecipi, insieme al capitale pubblico, alla realizzazione di un’opera di interesse collettivo. In cambio ne manterrà la gestione per tutti gli anni necessari a recuperare i capitali investiti e i relativi interessi.

Le idee insomma erano lì e al buon Castelli non è rimasto altro che metterle in pratica, inserendo la questione dell’edilizia penitenziaria nella più generale dismissione del patrimonio pubblico, ideata dal Giulio Tremonti e gestita attraverso la Patrimonio Spa, la società che il governo controlla.

2.4 La giustizia privata, la Dike Spa e una partita di giro di 530 milioni di euro

Nel maggio del 2003 il consiglio di amministrazione della Patrimonio Spa, la società controllata dal Ministero del Tesoro e nata allo scopo di gestire il processo di dismissione del patrimonio pubblico, deliberava la costituzione di una nuova società per la realizzazione dei piani di edilizia penitenziaria. Dopo appena due mesi, il Ministro della Giustizia presentava alla stampa la Dike Aedifica Spa, società per la realizzazione dei programmi di edilizia carceraria, controllata, appunto, dalla Patrimonio SpA. A presiederla è stato chiamato il professore Adriano De Maio, rettore dell’Università LUISS. Il consiglio d’amministrazione è formato dai rappresentanti dei ministeri della Giustizia, dell’Economia e della stessa Patrimonio Spa.

Tra tutte spicca, in quanto brillante sintesi dei nuovi indirizzi governativi, la nomina a consigliere delegato di Vico Valassi, che è stato il presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (ANCI). Lo scopo della società, recita lo scarno comunicato ufficiale, è “di contribuire allo sviluppo del sistema carcerario utilizzando l’edilizia penitenziaria storica quale leva di finanziamento per le infrastrutture carcerarie moderne, riducendo così anche gli oneri a carico della finanza pubblica

da WWW.RISTRETTI.IT

Investimenti ed espansione nel sistema penitenziario

di Paola Bonatelli

8.1 - Lavori in corso

Le carceri italiane sono quasi tutte dei cantieri. Spesso i lavori di ordinaria manutenzione, quelli in economia, vengono svolti dai detenuti, mentre l'attività di ristrutturazione vera e propria, affidata a ditte esterne, riguarda per la maggior parte dei casi il rifacimento delle docce.

Le "carceri d'oro" degli anni Ottanta, come abbiamo avuto già modo di segnalare nel primo Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, risentono di alcuni problemi "tipici": umidità, scollamento dei pannelli usurati, problemi agli impianti idraulici (tubature dell'acqua, fogne). Le carceri insediate in strutture antiche, castelli, fortezze, conventi, sono in dismissione, ma nel frattempo le attività di ristrutturazione non si fermano (citiamo un caso per tutti, San Vittore), anche perché lo stato di degrado rasenta sovente la fatiscenza. C'è anche chi stila una classifica degli istituti: l'autore è Alfredo Bonazzi (per la mala "Il Gratta", quasi 30 anni nelle patrie galere), per il mensile "Maxim".

Per quanto riguarda l'adeguamento delle strutture penitenziarie ad alcuni parametri fissati dal nuovo Regolamento di Esecuzione entrato in vigore il 20 settembre del 2000 - abbondante luce naturale, passaggio d'aria esterna, doccia e acqua calda in cella, bidet per le donne, cucina per non più di 200 reclusi, spazio-mensa - si può affermare che nessun carcere italiano è attualmente in regola con la generalità degli standard previsti. Alcune carceri, qua e là per il paese, hanno fatto qualche tentativo di adeguamento: il carcere di Rieti, che però rientra fra quelli di prossima dismissione, ha le docce e l'acqua calda nelle celle, ma gli spazi per i passeggi sono piccoli; la Casa circondariale di Camerino (33 detenuti) ha sei celle dotate di bagno interno e acqua calda, ma carenza di spazi interni ed esterni per le attività; le celle del carcere di Monza hanno il pulsante della luce all'interno e l'interfono, ma le sale per la "socialità" sono piccole e c'è una sola cucina per 500 detenuti; nella Casa circondariale di Rebibbia-Nuovo Complesso due sezioni hanno docce e acqua calda all’interno delle celle; a Trieste ci sono i lavabi con l'acqua calda; sempre a Rebibbia verrà realizzato un prefabbricato per le attività scolastiche e di formazione professionale. Molte carceri hanno sistemato, o hanno in previsione di farlo, gli spazi adibiti ai colloqui dei detenuti con i loro cari: a Rebibbia-Nuovo Complesso, nell'attesa di rimuovere i banchi divisori in muratura, ristrutturare le sale d'attesa e costruire i bagni adiacenti all'area verde, sono stati tolti i vetri divisori (salvo che nella sezione di alta sicurezza). Lo stesso a Brescia, a Varese, a Potenza.

A fronte di questi lavori o progetti di lavori, lo stato delle carceri italiane versa, per quanto riguarda le strutture e a detta degli stessi direttori, a parte qualche eccezione, in diversi livelli di degrado. Tra le cause innanzitutto il sovraffollamento, che arriva a punte scandalose, come a Latina, dove a volte ci sono sei detenuti per cella con i materassi a terra e la struttura non consente alcuna sistemazione di fondo, o a San Vittore, 2.000 detenuti in un istituto con 800 posti. Poi la vetustà delle strutture, come a Pordenone, dove anche la quantità di luce naturale è insufficiente e il passaggio dell'aria è ostacolato da grate e pannelli di plastica, a Brindisi, dove le finestre sono ancora a bocca di lupo, a Brescia, antica struttura a "panopticon", che certo non consente di realizzare i lavori di adeguamento richiesti. Per alcune di queste carceri c'è già il decreto di dismissione, per tutte le altre l'adeguamento entro cinque anni è obbligatorio.

Sarebbe necessario quindi avviare un monitoraggio globale delle strutture penitenziarie e un progetto unitario di ristrutturazione che tenga conto degli standard e delle indicazioni del Comitato europeo per la Prevenzione della tortura e dei trattamenti crudeli, inumani o degradanti (CPT).

8.1.1. Più detenuti? Più carceri

Costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non è la strada giusta: l'ha scritto chiaro il CPT nell'ultimo Rapporto reso pubblico. Gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria. Gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono viceversa quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione. Osservazioni interessanti, che hanno però trovato scarsa eco a livello governativo. Il vasto programma di edilizia penitenziaria predisposto nel gennaio del 2001 dal Comitato paritetico di edilizia penitenziaria, presieduto dall'allora ministro Piero Fassino e composto da rappresentanti dei ministeri della Giustizia e dei Lavori pubblici, prevede infatti la costruzione di 22 nuove carceri.

In quell'occasione, il Guardasigilli affermò che il risanamento edilizio degli istituti di pena era uno degli impegni prioritari del governo, mentre l'allora ministro dei Lavori pubblici Nerio Nesi si diceva soddisfatto non solo perché la costruzione di nuove carceri rispondeva «alle note esigenze di condizioni sicure e umane di espiazione della pena», ma anche perché avrebbe dato «un contributo sostanziale alle politiche di occupazione del governo».

Con il successivo decreto del 30 gennaio 2001, il ministro Fassino dispose la dismissione di 21 carceri, incaricando il direttore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria di promuovere le intese necessarie con le regioni o con gli enti locali interessati, per reperire le aree per la localizzazione dei nuovi istituti penitenziari da costruire in sostituzione di quelli che sarebbero stati dismessi.

Il programma di edilizia penitenziaria viene portato avanti dal successivo governo che, nella Finanziaria 2001-2003 stanzia 830 miliardi di lire. La legislazione sui lavori pubblici attualmente in vigore consente l'apertura a formule di finanziamento innovative con l'eventuale apporto di capitali privati quali la locazione immobiliare, il project financing e la vendita di beni immobili dismessi. Una scelta, quella di introdurre forme di gestione privatistica nel settore penitenziario, che vorrebbe rispondere alle esigenze di efficienza, risparmio e realizzazione di interventi in tempi rapidi, ma che di fatto spiana la strada alla privatizzazione sul modello statunitense: ideazione, costruzione e gestione della struttura penitenziaria e dei suoi ospiti.

Il "concorso di architettura per idee avente per oggetto l'elaborazione di un prototipo originale e inedito di istituto penitenziario di media sicurezza a trattamento penitenziario qualificato" è della primavera del 2001. L'istituto-modello, che deve prevedere 200 posti detentivi, sarà costruito su un'area pianeggiante rettangolare di 80.000 mq, lambita da via pubblica. La zona detentiva deve essere composta da 60-80 unità autonome modulari ripetibili (le cosiddette "sezioni") di circa 60-80 posti letto, dorate di spazi polivalenti per il trattamento sia interni che esterni. Celle a due posti con servizi igienici oppure moduli a 4 posti con spazi distinti per il pernottamento e il soggiorno, dotati di servizi igienici e attrezzati per la cottura di cibi. Del concorso, scaduto il 13 giugno 2001, e degli atti relativi non abbiamo altre notizie. Sino al gennaio 2002 i provveditori regionali dell'amministrazione penitenziaria non hanno ricevuto comunicazioni a riguardo, mentre proseguono, come vedremo più avanti, i contatti con le amministrazioni locali interessate alla costruzione di nuove carceri.

8.1.2. Proposte nuove, idee vecchie

Il ministro Roberto Castelli prosegue l'opera del suo predecessore, ma ha una marcia in più: la cultura e la pratica dell'impresa, con qualche competenza specifica nel ramo. Le carceri, secondo il ministro Castelli, vanno riaperte e costruite: riaperte quelle che sono state dismesse e sono ancora in buono stato (come il famigerato istituto collocato nell'isola di Pianosa), messe a pieno regime quelle nuove e sotto utilizzate (come Milano-Bollate, 14 anni di lavori e 240 miliardi di spesa per 820 posti in cella), costruite quelle che servono.

Con il 33% di detenuti tossicodipendenti e quasi il 30% di stranieri, le soluzioni per il sovraffollamento sono strutture detentive differenziate per i tossicodipendenti e il reimpatrio con promessa di rinunciare a tornare in Italia per gli stranieri detenuti "per reati lievi". Per chi resta in carcere invece, sarà il lavoro, anzi l'obbligo al lavoro a realizzare ciò che tanti sforzi legislativi non sono riusciti a garantire. Il ministro dunque traccia un quadro che si può riassumere così:

rispediti i detenuti stranieri in patria, trasferiti i pericolosi in carceri speciali, sistemati i tossicodipendenti e i sofferenti psichici in strutture più "leggere", magari gestite da "amici di famiglia" e rigorosamente proibizioniste (vedi più avanti la vicenda San Patrignano-Castelfranco Emilia), quelli che restano facciamoli lavorare. Gli altri, se lavorano, potranno avere i permessi e forse in qualche modo tornare nella società. Con questa prospettiva inizia la calda estate 2001. Le carceri sono un inferno, quasi 58.000 detenuti, ultimi dei quali gli arrestati durante il G8 di Genova: ragazzi e ragazze di tutto il mondo, reduci dai pestaggi di polizia e carabinieri e dai massacri della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, tra i pochi ad avere parole positive per il trattamento ricevuto nelle carceri italiane (Voghera, Genova, Alessandria): "un'oasi" - dicono - dopo le violenze subite.

8.1.3. Antico carcere vendesi

Nell'ottobre 2001 il ministro lancia una proposta che definisce «rivoluzionaria»: vendere le carceri storiche che si trovano al centro delle città e finanziare così la costruzione di strutture più funzionali e moderne. La proposta inaugurerebbe una nuova politica che consentirebbe al ministero di recuperare risorse per costruire penitenziari «di nuova concezione e più accoglienti». Con l'obiettivo di «migliorare le condizioni di detenzione all'interno delle carceri», anche perché molto spesso, viste le condizioni delle strutture esistenti, i detenuti non possono lavorare e costruirsi «un futuro migliore nella società». Le tappe del progetto prevedono: l'individuazione dei penitenziari di interesse storico-artistico, la verifica della disponibilità delle amministrazioni locali allo spostamento, l'individuazione delle volumetrie necessarie e la richiesta ai Comuni di organizzare gli strumenti urbanistici, la verifica con il ministero delle Finanze dei tempi di sdemanializzazione e infine l'aggiudicazione delle opere.

Sullo stesso tema alcuni parlamentari del centrodestra presentano un disegno di legge sulle norme relative all'edilizia carceraria nei centri urbani (Atto Senato n. 645, presentato il 20 settembre 2001), attualmente ancora in esame alla XIII commissione. In pratica il disegno di legge vieta la costruzione o l'ampliamento di strutture carcerarie poste nei centri storici delle città superiori a 200.000 abitanti, imponendo ai Comuni le relative varianti ai Piani regolatori e prevedendo la possibilità di un intervento diretto dei ministeri interessati (Infrastrutture e trasporti, Giustizia) qualora i Comuni si dimostrassero inadempienti. Una proposta che si armonizza con il D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), che disciplina l'espropriazione, anche a favore di privati, dei beni immobili o di diritti relativi ad immobili per l'esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità (art. I, CO. I).

Nella breve relazione che introduce il disegno di legge, i presentatori richiamano il caso dell'istituto di San Vittore, nel cuore di Milano, che crea problemi insolubili e non si può riammodernare. E infatti è proprio San Vittore il primo nella lista delle carceri da vendere: lo riporta il "Corriere della Sera" . 50.000 metri quadrati che, considerando i vari parametri, potrebbero valere 300 miliardi di lire (154.937.000 euro). Il ministro della Giustizia annuncia di aver già cominciato a lavorare col ministro dell'Economia, responsabile dell'eventuale sdemanializzazione, per studiare i progetti di fattibilità e valutare le volumetrie degli edifici. Ovvero, commenta il "Corriere", per rendere appetibili gli immobili sul mercato.

Ancora il ministro Castelli - a Milano, ai primi di novembre 2001, per la festa della Polizia penitenziaria nel nuovo carcere di Bollate - e il sindaco Gabriele Albertini annunciano di voler chiudere San Vittore e di aver avviato uno studio di fattibilità per la sua dismissione. Si tratterebbe insomma di una permuta, che potrebbe avvenire grazie ad un gentlemen agreement con il ministro delle Finanze, il quale dovrebbe provvedere alla sdemanializzazione degli immobili.

E il privato acquirente costruirebbe in cambio un nuovo carcere. Le permute dovrebbero essere a costo zero per i contribuenti, dato che - secondo il ministro - «San Vittore dovrebbe valere la costruzione di un nuovo penitenziario». A San Vittore intanto proseguono i lavori di ristrutturazione, finanziati dal ministero con 60 miliardi.

A gennaio 2002 entra in vigore il decreto interministeriale che definisce come vanno spesi gli 830 miliardi di lire (43 milioni di euro) stanziati nella Finanziaria per gli anni 2001-2003. 95 miliardi di lire (5 milioni di euro) vengono assegnati all'esercizio finanziario 200I, 375 (19,5 milioni di euro) all'esercizio 2002 e 360 (18,5 milioni di euro) a quello del 2003. Il piano prevede e contabilizza gli interventi di ristrutturazione e risanamento, i risarcimenti e le indennità di vario genere, la costruzione di nuovi istituti. Circa 270 miliardi (di cui 42 residui) è la somma stanziata per le ristrutturazioni: 10 miliardi al carcere romano di Regina Coeli, 20 alla casa circondariale di La Spezia e alla casa di reclusione di Fossano, quasi 17 miliardi per il carcere di Venezia, e via discorrendo. Per la costruzione dei nuovi istituti (8 dei 22 previsti con un elenco di priorità) vengono stanziati in tutto 620 miliardi.

La Sardegna fa la parte del leone con 112 miliardi per il nuovo carcere di Cagliari e 104 per quello di Sassari. Soltanto 50 miliardi per la prigione "contesa" di Pordenone e 35 per il carcere di Marsala.

Il piano predisposto dai ministri della Giustizia e delle Infrastrutture non piace per nulla al SAPPE, il principale sindacato autonomo della Polizia penitenziaria. Sono però soprattutto i lunghissimi tempi di attuazione a preoccupare gli agenti: «Prima di vedere l'effettiva realizzazione - sostengono - passeranno ancora parecchi anni e per molti dei nuovi istituti previsti non è stata ancora definitivamente approvata dai Comuni interessati l'area su cui dovrebbero sorgere.

È il caso di Savona, Pordenone, Cagliari e Sassari. Questo significa che non vi è alcun progetto e nessuna gara d'appalto è stata indetta. Ad essere ottimisti - sostiene il SAPPE - prima di inaugurare uno dei nuovi istituti passeranno almeno altri 4 o 5 anni».

8.2

It's business, baby: San Patrignano

e la nuova frontiera anglosassone

Il caso San Patrignano-Castelfranco rappresenta realmente quel «cavallo di Troia», per usare le parole di Alessandro Margara, capace di far penetrare l'interesse privato in un settore delicato come quello dell'esecuzione penale.

È il presidente Ronald Reagan, a metà degli anni Ottanta, a dare impulso alla privatizzazione del sistema penitenziario americano; nel 1988 una apposita Commissione presidenziale raccomanda l'estensione della privatizzazione delle carceri, incentivando forme di finanziamento e di costruzione diretta degli istituti da parte di privati. Oggi sono circa 145.000 le persone detenute nelle carceri private (erano 15.300 nel 1990), gestite da vere e proprie società dai nomi indicativi: Group 4 Total Security Ltd., Detention Corporation, Incarceration Group, Societé carcerale Mickey Mouse Ltd. Sono le multinazionali della sicurezza, quelle che non hanno nessun interesse nell'eventuale abbassamento del tasso di detenzione (gli Stati Uniti hanno il tasso di carcerazione più alto fra i paesi occidentali, 700 detenuti su 100.000 abitanti). Né hanno interesse, per esempio, a punire un dipendente colpevole di maltrattamenti: il detenuto ha valore in quanto è inserito nell'azienda-carcere, che deve dimostrare i suoi numeri e far quadrare i conti. Il recluso in un carcere privato statunitense deve essere obbligatoriamente assicurato contro i danni fisici subiti a causa di reciproche violenze. Non solo: si assiste sempre più frequentemente a strani fenomeni, quali l'acquisizione, da parte delle compagnie private, di intere cittadinanze: gente che abita in zone depresse, che vede nella costruzione di un carcere un'opportunità di guadagno. Ci sono Stati che esportano detenuti, dalle galere pubbliche a quelle private: a Youngstown, la CCA (Correction Corporation of America), uno dei colossi del settore con 71.000 detenuti da gestire, ha promesso agli abitanti 450 posti di lavoro; i detenuti li ha importati dalla prigione di Lorton, nel distretto di Columbia.

In Gran Bretagna, dove i primi piani sperimentali di privatizzazione delle carceri sono stati avviati nel 1990, il risultato è stato l'aumento delle aggressioni rispetto alla media delle prigioni statali e relazioni sugli incidenti zeppe di omissioni. Nei paesi dove il carcere privato è una realtà consolidata (Stati Uniti, Australia, Regno Unito, Nuova Zelanda, Canada) sono numerose le denunce di maltrattamenti, anche fino alla morte, dei detenuti. In occasione della morte di Scott Nornberg, deceduto per asfissia in un carcere dell'Arizona dopo che 14 agenti l'avevano legato a una sedia di costrizione applicandogli un sacco sul viso, Amnesty International ha inviato una delegazione di osservatori, che hanno testimoniato sulle violenze subite dai reclusi. Amnesty si è detta preoccupata, oltre che dell'uso di strumenti di costrizione, anche della carenza di assistenza medica, della condizione dei minorenni, che non seguono i programmi di rieducazione previsti dalle leggi internazionali, della situazione delle donne detenute, spesso accompagnate da agenti maschi, dalla presenza di catene negli accampamenti all'aperto.

Non va certo meglio l'esperienza australiana, documentata dai rapporti di alcune associazioni per i diritti civili. La privatizzazione del sistema penitenziario nello Stato di Victoria è avvenuta senza che il governo fornisse alcuna informazione sulla gestione degli appalti, giustificando l'omissione con la formula della "riservatezza commerciale". Le tre compagnie private che hanno vinto le gare di appalto, la ACM (Australian Correctional Management), la CCA (Corrections Corporation of Australia) e il Group 4 Remand Services Ltd., sono riuscite anche ad ottenere la condanna di molti attivisti delle associazioni per i diritti civili, che informavano l'opinione pubblica sulle loro speculazioni e su ciò che accadeva nelle carceri. Tra il 1992 e il 1996 infatti, nelle 4 prigioni private australiane, sono morti 14 uomini rimasti proprietà delle compagnie anche dopo la morte, come dimostra l'esito dell'inchiesta istruita dopo la morte del primo di loro.

Il giudice decise che non c'erano irregolarità nel contratto di gestione della compagnia, protetta dalle leggi sulla "trattativa privata" e tanto bastò.

La ACM ha addirittura costruito un carcere femminile su un'area di immagazzinaggio e sperimentazione di munizioni, esplosivi e prototipi di armi, che apparteneva alle Australian Defence Industries. La CCA è a tutti gli effetti una multinazionale che opera in diversi paesi. In America ha costruito e gestito il primo carcere femminile privato del mondo, in mezzo al deserto del Nuovo Messico: un luogo infernale, dove le donne erano stipate in dormitori aperti e non usufruivano di alcun programma rieducativo; la compagnia non assicurava nemmeno i collegamenti postali.

Il Group 4 Remand Services Ltd. è invece un'azienda britannica che gestisce alcune strutture detentive nel suo paese, tra cui Campsfield, il centro di detenzione per immigrati di Kidlington (Oxford). Questo centro, utilizzato precedentemente come casa di correzione per minori, è stato riaperto come centro di detenzione per gli stranieri nel 1993 e funziona come un carcere di massima sicurezza. Nell'estate del 1997 Campsfield salì alla ribalta delle cronache per una rivolta dei detenuti che costò un processo a nove cittadini africani, conclusosi con la loro assoluzione. Il giudice decretò che le accuse a loro carico erano state inventate e la realtà distorta dai membri della Group 4. Ora Campsfield, <> (così lo definiscono i media inglesi), sta per essere chiuso. Il ministro degli Interni ne ha recentemente annunciato la chiusura, una vittoria per i promotori della campagna Close Campsfield, che da anni protestano contro le condizioni di reclusione e l'esistenza stessa del campo. La Group 4 gestisce anche il servizio di traduzione dei detenuti di dieci distretti (Inghilterra e Galles).

In Australia è presente sin dagli anni Settanta e concorre agli appalti di gestione degli istituti penitenziari. Appalti che ovviamente, come ovunque, giocano al ribasso; lo stesso dicasi per i costi di gestione, che si cerca, come in tutte le aziende, di ridurre all'osso. Ridurre i costi di un carcere significa però innanzitutto abbassare i livelli di qualificazione del personale, assumere persone senza esperienza, tagliare spese ritenute inutili, e quindi ridurre gli spazi di umanità, ritenuti non produttivi.

Il quadro generale delle esperienze privatistiche nel sistema penitenziario mostra dunque parecchi aspetti inquietanti, gli stessi che preoccupano tutti coloro che hanno levato voci critiche contro la strada intrapresa con la vicenda San Patrignano. Di fatto, se l'ex Casa di lavoro di Castelfranco Emilia - per la cui ristrutturazione lo Stato, vale la pena ripeterlo, ha speso 15 miliardi di lire verrà data in gestione alla comunità dei Muccioli, si tratterà del primo esperimento di carcere privato in Italia.

San Patrignano è la comunità di recupero per tossicodipendenti più famosa d'Italia. Gestita "di padre in figlio" dalla famiglia Muccioli (attualmente da Andrea, figlio del fondatore Vincenzo), da sempre nell'agenda anche privata di noti esponenti del mondo della politica e dello spettacolo, la comunità rappresenta l'incarnazione del "solidarismo autoritario" che intende "salvare" il tossicodipendente, individuo incapace di intendere e volere, anche senza il suo consenso e contro il suo consenso - come scrive Luigi Manconi sin dall'approvazione della legge 162/1990 che riformò in senso repressivo la legislazione antidroga. A questa comunità potrebbe essere affidata la gestione dell'ex Casa di lavoro di Castelfranco Emilia, una struttura costituita da un'azienda agricola di 23 ettari con stalle, frutteti, vigne, serre, alveari e macchine agricole, per cui lo Stato ha già speso 15 miliardi in vista dell'attuazione di un protocollo d'intesa tra ministero della Giustizia e Regione Emilia-Romagna, che aveva messo allo studio il recupero e la destinazione della Casa di lavoro a custodia attenuata per i tossicodipendenti.

L'operazione inizia a metà luglio de1 200I, in ballo c'è l'assegnazione di un finanziamento della Comunità europea (Progetto Equal, incentivi per il lavoro di soggetti appartenenti a categorie svantaggiate). Il provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria dell'Emilia Romagna firma un'intesa di partnership con la comunità di Muccioli. A metà agosto viene chiesto il parere al DAP, che prende le distanze dal progetto. Ciononostante, il 26 agosto, data di scadenza del bando europeo, viene presentato un progetto che appalta al privato l'esecuzione della pena e nel contempo impedisce il controllo da parte dell'amministrazione penitenziaria.

Il sistema della detenzione diventa un business che nemmeno le denunce di Alfonso Sabella, magistrato, ex capo degli ispettori del DAP rimosso nel dicembre del 2001 riusciranno a fermare. Sabella sostiene che nelle carceri italiane i posti per i detenuti ci sono, ma non vengono sfruttati "per ragioni di comodo".

L'esito del monitoraggio disposto a suo tempo dal DAP avrebbe potuto dimostrare l'inutilità della realizzazione di nuove strutture penitenziarie, «la cui progettazione dipende talvolta solo da interessi localistici». Proprio gli accertamenti compiuti sullo stato generale delle carceri e l'utilizzo del personale, secondo Sabella, avrebbero potuto essere la causa della sua estromissione dal DAP.

8.3

Macomer, Pianosa e l'Asinara

La relazione semestrale al Parlamento sullo stato di attuazione del programma di costruzione e adattamento di stabilimenti di sicurezza del ministero della Giustizia, per un importo totale di spesa prevista di 21 miliardi e 500 milioni, fissa l'ampliamento delle sezioni per i detenuti sottoposti al 41 bis nelle carceri di Terni (1 miliardo e 700 milioni) e Spoleto 6 miliardi e 500 milioni), mentre introduce il "carcere duro" a Tolmezzo (lavori ultimati), Opera (3 miliardi per l'adeguamento dell'ex sezione femminile) e Macomer, dove l'intera struttura circondariale cambia destinazione d'uso (13 miliardi di spesa).

La scelta di Macomer scatena una bagarre nella cittadina sarda, ma maggiore attenzione viene posta ai propositi di riaprire gli istituti di pena delle isole di Pianosa e dell'Asinara. Due carceri speciali, dismesse per ragioni ambientali: nelle isole, infatti, vi sono oggi aree naturalistiche protette. Anzi, il compendio dell'Asinara è già stato trasferito dallo Stato alla Regione. Quanto a Pianosa, il piano prevederebbe la riapertura della struttura e il trasferimento in quella sede di detenuti a basso tasso di pericolosità, che potrebbero curare l'ambiente naturale dell'isola tirrenica. Un progetto che il DAP dovrebbe elaborare per presentarlo poi al ministro dell'Ambiente e alla Regione Toscana. Questa però è una scelta che ha molti nemici: l'Ente Parco, la Regione Toscana, il ministero dell' Ambiente. Una scelta in controtendenza, in quanto profondamente antieconomica.

8.4

Le carceri contese: Rieti e Pordenone

Il carcere fa gola a tutti. Si creano aspettative, anche economiche. Nelle località interessate alla costruzione di istituti penitenziari le commissioni del ministero incontrano i rappresentanti degli enti locali. A volte tutto fila liscio, come a Spini di Gardolo, dove verrà edificato il nuovo carcere di Trento, che possederà tutte le caratteristiche previste dal recente regolamento penitenziario, a volte ci sono degli intoppi, come nel caso del carcere di Rieti e di quello del Friuli occidentale. Vere e proprie grane politico-amministrative, che coinvolgono diversi soggetti, dagli amministratori locali, come nel caso Pordenone-San Vito al Tagliamento, ai cittadini, rappresentati dalle associazioni che hanno inviato nel giugno 2001 una diffida al TAR sulle irregolarità riguardanti la costruzione della casa circondariale di Rieti.

A Rieti, tutto nasce da errori ed omissioni contenuti nel verbale redatto dalla Commissione ministeriale nel febbraio 2000, in cui è scritto che l'area individuata dal Comune per la costruzione del nuovo istituto è destinata a «uso prevalentemente agricolo e residualmente di rispetto». Un'indicazione sbagliata che il Comune non si prende la briga di verificare, nonostante l'invio, da parte di alcune associazioni, di un atto stragiudiziale di comunicazione e diffida, in cui si invita il Consiglio comunale ad adottare decisioni cognita causa e nel rispetto delle normative vigenti. Anche il presidente dell'Amministrazione separata dei Beni civici di Vazia solleva eccezioni sulla localizzazione dell'area, inviando le proprie osservazioni al procuratore della Repubblica di Rieti e al presidente della Commissione ministeriale.

L'area in questione infatti, non solo è vincolata nella destinazione urbanistica in parte a zona per attrezzature comuni (ospedale) e in parte a verde di rispetto: comprende anche 7.000 mq di cave a cielo aperto da cui si estrae materiale inerte. Un particolare, certo non trascurabile, omesso dalla stessa Commissione ministeriale, ma espresso chiaramente nei verbali precedenti, del 1986 e 1987, in cui l'area veniva giudicata «non idonea». Costruire un edificio in zona di cave significa infatti sostenere costi onerosi e rifare la viabilità. Non è ancora tutto: oltre alle cave, nell'area è presente una falda acquifera che alimenta una sorgente di acqua potabile, di cui usufruiscono i cittadini reatini; una falda, come risulta dalle perizie idrogeologiche, che si trova a soli dieci metri di profondità sotto le cave, molto permeabile all'inquinamento. La zona è soggetta infine a vincolo paesistico secondo una delibera del 1999 della Regione Lazio.

Dati di fatto che non impediscono al Consiglio comunale di Rieti di approvare, nella seduta dell'8 maggio 2000, la scelta dell'area, che va a costituire variante al Piano regolatore, stabilendo che debba intendersi destinata a "Servizi pubblici generali". Il successivo 26 settembre il sindaco di Rieti riceve una nota del DAP, in cui si precisa che il nuovo carcere deve prevedere una capienza di 250 posti detentivi. Pochissimi per i 70.000 mq di superficie coperta e i 210.000 metri cubi di volume previsti, capaci di accogliere dai 700 ai 1.000 detenuti. Tutti motivi che inducono l'Amministrazione separata dei Beni civici di Vazia e le associazioni già firmatarie della prima diffida a presentare ricorso al T AR contro il Comune di Rieti e i ministeri della Giustizia e dei Lavori pubblici, che hanno risposto con un silenzio "omissivo" all'atto di diffida presentato nel marzo 2000.

Tutt'altro problema quello che riguarda il carcere che dovrebbe sorgere nel territorio del Friuli occidentale: l'area era già stata individuata dal governo del centrosinistra, la vecchia sede dismessa della Friulcarne nel comune di S. Vito al Tagliamento. Il Consiglio comunale aveva espresso parere positivo, i vincoli urbanistici erano stati rimossi, il decreto ministeriale che autorizzava la costruzione era pervenuto al sindaco il 10 maggio 2001. Tutto regolare, salvo la dicitura relativa alla destinazione del nuovo istituto: Pordenone-San Vito. Secondo il ministro Fassino significava carcere della provincia di Pordenone da costruirsi a San Vito, secondo il suo successore significa che la localizzazione precisa non è ancora stata fatta. Nel mese di ottobre un funzionario ministeriale incontra il sindaco di Pordenone e visita il sito di Via Musile, che pure aveva ricevuto parere positivo della commissione ministeriale, ma è di proprietà della Curia, oltre a trovarsi proprio all'entrata della città. Insorgono i consiglieri comunali di San Vito e gli agenti di polizia penitenziaria della FPS-CISL. «È un'operazione - dichiara il consigliere comunale Luciano Dal Frè - banditesca e sporca, che, scavalcando ogni ordine istituzionale e di rappresentanza politica tende a rimettere in discussione una scelta già sanzionata e per la quale sono stati stanziati 50 miliardi».

Gli agenti minacciano - se non si definisce la sede del nuovo carcere, avviando le procedure di vincolo del finanziamento - di chiedere la chiusura della Casa circondariale di Pordenone, un antico castello. Il timore è quello di perdere la priorità nei finanziamenti assegnati al Friuli occidentale per lo sviluppo dell'edilizia penitenziaria e da fonti ministeriali si apprende che il castello, in cui ha sede l'attuale casa circondariale, potrebbe essere venduto per ricavare le risorse necessarie a costruire il nuovo istituto. Un'idea che non piace agli esponenti politici locali, anche perché il castello potrebbe rientrare nel novero delle dismissioni a titolo gratuito, secondo l'accordo Stato-Regione, che prevede un elenco aperto di strutture da trasferire agli enti locali.

8.5

Conclusioni

Le valutazioni e le conclusioni che si possono trarre dal quadro prospettato sono abbastanza evidenti e certamente non è troppo audace affermare che vi è un'indubbia convergenza generale verso una visione privatistica dell'intero sistema, ivi compreso il settore penale. La vicenda di San Patrignano, il viaggio studio del presidente del Consiglio Berlusconi nelle carceri private cilene lo stanno a dimostrare. Una tendenza preoccupante, per nulla confortata dall'esperienza dei paesi in cui la privatizzazione del settore penitenziario è da anni una realtà.

Le Nazioni Unite se n'erano rese conto già nel 1988, quando avevano cercato di frenare le tendenze americane alla privatizzazione nel settore penitenziario; il rapporto della sotto-commissione per la lotta contro la discriminazione e per la protezione delle minoranze aveva elencato una serie di argomenti contrari alla devoluzione dei poteri pubblici in campo di esecuzione della pena. In pratica il Rapporto sottolinea il fatto che solo allo Stato spettano i poteri e le funzioni disciplinari (compreso l'uso della forza), ma anche la responsabilità per la protezione dei diritti umani. Una gestione privata - il Rapporto lo specifica in modo chiaro - potrebbe opporre il segreto commerciale a eventuali richieste di chiarimenti esterni (come è accaduto in Australia e come si è tentato di fare nel processo per la rivolta di Campsfield), oltre all'innegabile fatto che <>.

Inoltre, se l'ossessione securitaria, produce maggiore domanda di penalità, ossia più richiesta di carcere, l'ottica e la pratica del business penitenziario con l'entrata dell'interesse privato in un settore così delicato rischiano di gonfiare ulteriormente questa domanda. Basti pensare alla faccenda degli appalti, che possono scatenare appetiti mafiosi, pur essendo a tutt'oggi controllati dalla pubblica amministrazione. Con l'intervento dei capitali (e quindi degli interessi) privati, il giro d'affari crescerà non solo intorno alle mere strutture (aree di costruzione, edificazione, forniture di vario genere), ma anche intorno alla gestione stessa dell'esercizio della penalità.

Alle società private, come del resto già succede nei paesi di common law, può essere data in gestione la sorveglianza interna (o parte della sorveglianza) dei detenuti, ma anche "pezzi" di gestione (per esempio i tossicodipendenti, sul modello di San Patrignano) o l'esecuzione esterna della pena, ad esempio i controlli dei soggetti in misura cautelare o alternativa e la sorveglianza elettronica.

È chiaro che a nessuna compagnia o multinazionale della sicurezza farebbe piacere una riduzione della pressione penale, con conseguente minor giro di affari.

Più gente va in carcere, più ci si potrà guadagnare. Anche se non è dimostrato un collegamento diretto tra privatizzazione e crescita della popolazione detenuta, tutto fa pensare che un nesso in effetti vi sia.

Nonostante le numerose controindicazioni, pare che - insieme con l'espansione del sistema penale - anche questa sua modalità di gestione, propria del modello americano, si stia lentamente espandendo in Europa e nel nostro paese. Il business delle prigioni ha oramai una sua storia e una sua geografia, ma sembra anche che abbia un futuro molto roseo.

Il sacco d’Italia legalizzato
di Barbara Fois

Prima puntata: la Patrimonio spa

Fra tante leggi inventate da questo governo, ce ne sono alcune che renderanno molto difficile districare gli interessi privati del cavaliere e dei suoi soci, da quelli del popolo italiano. Un esempio? Con la legge 112 del 2002 è stata costituita la società Patrimonio Spa, autorizzata a censire, dismettere e vendere i beni paesaggistici e storico artistici dello Stato. Proprio così. Beh, in realtà nel precedente governo di CS si era cominciato a cartolarizzare i beni dello Stato. Essi sarebbero stati divisi in tre gruppi: quelli che non saranno mai alienati, perché di interesse superiore; quelli che potrebbero essere affidati alla gestione dei privati, che si impegnino a restaurarli, tutelarli e renderli fruibili al pubblico e infine quelli di scarso o insignificante valore storico artistico e che potrebbero essere anche venduti. L’idea è piaciuta al nuovo governo, che – naturalmente – ha girato a modo suo questo censimento. La cosa è raccontata in una accorata lettera firmata dall’on. Giovanna Melandri, già ministra ai Beni Culturali, nel precedente governo di CS e da Lucia Urciuoli. Nello scritto, che risale al 10 dicembre del 2002, l’on. Melandri informa “Nel mese di luglio l'Agenzia del Demanio (Ministero dell'Economia) ha pubblicato il primo elenco ricognitivo di beni da cui il Ministero dell'Economia "pescherà" i beni da trasferire a Patrimonio spa. All'interno di questo elenco di migliaia di voci abbiamo individuato quelli di maggior pregio (tra cui, solo per citarne alcuni, gli ex Incurabili a Venezia (in cui è in corso un cantiere che dovrebbe consentire l'allargamento delle Gallerie dell'Accademia, oggi ristrette in uno spazio troppo piccolo), le isole di Spargi o Giannutri nell'arcipelago toscano, il museo di Capodimonte o la certosa di San Martino a Napoli, Villa Iovis a Capri o il sito archeologico di Alba Fucens in Abruzzo, il Carcere di San Vittore a Milano, quello di Poggioreale a Napoli, decine di fari o spiagge)….?

Infatti la Patrimonio spa, che Tremonti ha voluto soggetta al ministero dell’Economia, sottraendola alla naturale tutela del Ministero per i Beni Culturali, è pronta a vendere anche beni storico artistici di gran pregio. Beni dello Stato - cioè di noi tutti - tutelati dall’articolo 9 della Costituzione. Ci chiediamo: come società per azioni avrà certo degli azionisti, di cui ci piacerebbe molto conoscere l’identità, come ci piacerebbe sapere quali sono stati i criteri con cui è stato scelto il consiglio di amministrazione. Aspetto che deve avere interessato molto anche l’onorevole Francesco Carboni dei DS, che infatti ne ha fatto oggetto di una interpellanza.

Ma torniamo ai nostri beni, che, come specifica la legge, saranno venduti attraverso due fasi d’asta: “ L’espletamento delle aste avviene in due fasi: la prima mediante offerte segrete in aumento di almeno l’1 per cento rispetto al prezzo di base d’asta, la seconda mediante offerte segrete incrementative, riservata ai soggetti che hanno presentato le due migliori offerte.
Il prezzo di base d’asta degli immobili è determinato dall’Agenzia del Territorio; in tal modo sono garantite competenza e trasparenza nell’applicazione del metodo di valutazione.“

http://www.patrimoniodellostato.it/

Tutte le offerte sono segrete, quindi chi partecipa non sa quali siano le altre offerte o gli altri concorrenti. E ci sono già state ben tre aste. Chi ha comprato? E cosa? E a che prezzo? E cos’è questa Agenzia del Territorio che dovrebbe fare da garante? Andiamo sul sito http://www.agenziaterritorio.it e leggiamo alla voce “chi siamo“: “L’Agenzia del Territorio, nata all’interno della riforma del Ministero dell’Economia e delle Finanze, è operativa dal 1 gennaio 2001 ed è un ente pubblico dotato di personalità giuridica e ampia autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria.? E dipende completamente dal ministero dell’Economia. Allora il ministero dell’Economia ha una Agenzia del territorio che dice quanto valgono gli immobili della Patrimonio spa, che dipende sempre dallo stesso ministero, il quale è l’unico arbitro delle aste che vendono questi immobili. Abbiamo capito bene? Beh, e chi controlla il controllore? Ma non è l’unica cosa sorprendente.

Fra i beni da dismettere ci sono molte carceri storiche, come San Vittore, Ventotene, Poggioreale, l’Asinara, alcune delle quali in posti isolati e amenissimi. Intuendo un grosso business, il ministro di Giustizia Castelli ( da buon ingegnere) ha creato, il 3 luglio 2003, un’altra società per azioni: la Dike Aedifica spa, il cui solo socio è la Patrimonio spa., e che è preposta proprio alla dismissione, cambiamento d’uso e vendita delle carceri. Anche il consiglio di amministrazione di questa società, è oggetto della stessa interpellanza parlamentare dell’onorevole Carboni. Sappiamo che presidente del CdA è stato nominato il rettore della LUISS, Adriano De Maio, per quel che riguarda gli altri membri è detto: http://www.giustizia.it/ministro/com-stampa/xiv_leg/03.07.03.htm “Nel Consiglio di Amministrazione siederanno rappresentanti del ministero della Giustizia, del ministero dell'Economia e di Patrimonio SpA. Consigliere delegato sarà Vico Valassi, già presidente dell'Ance (Associazione nazionale costruttori edili).“

Il che è evidentemente un titolo considerato preferenziale. [ Consigliamo comunque di visitare il sito http://www.ance.it e soprattutto il link “la storia?, edificante ( è il caso di dirlo) racconto, che parte dal 1921 con la Federazione nazionale fascista dei costruttori edili.]

Nell’interpellanza dell’onorevole Carboni, a proposito di consulenti, si chiedono anche notizie del consulente per l’edilizia penitenziaria signor Giuseppe Magni, nominato dal ministro Castelli, e sui suoi rapporti con la Dike Aedifica spa, a partire dal 3 luglio 2003. La domanda non è dettata da un puro, semplice e insopprimibile desiderio di gossip - anche se il fatto che il Magni il Castelli e il Valassi siano compaesani di Lecco, sia una curiosa e sorprendente coincidenza davvero - ma da una legittima preoccupazione, infatti il signore in questione da qualche mese è sotto inchiesta, accusato di corruzione. I fatti: il 7 aprile di quest’anno 2005 il settimanale L’Espresso pubblica un articolo di Marco Lillo in cui si parla di un video che inchioderebbe il signor Magni. Il filmato si trova nel pc di Angelo Caprotti, costruttore, con la mania di registrare tutti gli incontri d’affari, perché a sua detta informatore del Sismi. In questo filmato il Magni vanta di essere lui a determinare i nomi delle ditte appaltatrici scelte per la costruzione delle carceri di Varese e di Marsala e chiude dicendo “prima di firmare al ministero dovete passare da me.“ . Poi si lancia a parlare del secondo filone d’oro delle carceri: i penitenziari dismessi. Di questo si deve occupare la Dike Aedifica spa., controllata dalla Patrimonio spa ( cioè dal governo) e amministrata dal compaesano Valassi. Parla soprattutto del carcere di Ventotene e di come potrebbe diventare un albergo di extralusso. Questa conversazione è saltata fuori dal pc insieme ad altre, durante un controllo della Finanza. Adesso Magni è sotto inchiesta e naturalmente è stato abbandonato a sé stesso da tutti, in primis dall’amico ministro, che dovrà spiegare come faceva il Magni a fare il consulente della Dike, non avendo alcuna competenza nel settore.

In tutto questo giro di interessi e di soldi, i poveri esseri umani, emarginati e vinti che stanno chiusi dentro i 205 carceri italiani, non hanno nessun peso. Non interessano nessuno.

Nell’amarezza c’è anche la riflessione che adesso vedere, in un celebre film, Totò che vende la fontana di Trevi non fa più ridere.

Barbara Fois

Approfondimenti:

www.patrimoniosos.it/

http://www.ecquologia.it/sito/pag366.map

http://www.patrimoniodellostato.it/

www.senato.it/dsulivo/dossier/patrimonio%20spa.pdf

http://www.giovannamelandri.it/inside.asp?id=41

http://www.edilportale.com/edilnews/Npopup.asp?IDDOC=3847

http://www.nens.it/dib/?id=101876

http://eddyburg.it/article/articleview/269/1/92/

www.democrazialegalita.it/elisapatrimonio.htm