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50 anni di storia radicale che fecero l’Italia laica

Testo: 

di Mauro Mellini

Credo che si debba ricordare come un evento non secondario della vita del nostro Paese il cinquantesimo anniversario della nascita del Partito Radicale, avvenuta nel dicembre 1955. Non credo, invece, che si possa parlare di cinquantesimo compleanno, per il semplice fatto che esso non è vissuto abbastanza per raggiungere quel traguardo. E’ finito prima di arrivare alla maturità, anche se, certamente, è stato un vero “enfant prodige“, che ha compiuto imprese memorabili nella sua infanzia, prima ancora di accedere alla vita parlamentare ed istituzionale. Quando fondammo quel partito, attorno al gruppo degli “amici de Il Mondo“, Carandini, Ferrara, Libonati, Cattani, Ernesto Rossi, Piccardi, Paggi, l’Italia era sommersa nel regime clericale. Quella nuova formazione politica sembrava dover risollevare idee di rinnovamento, abbandonate per lasciare in piedi quanto era sfuggito alla rovina del fascismo. Un tentativo compiuto, tuttavia, nel canale delle vecchie strutture e dei vecchi metodi politici, che l’alto livello culturale dei protagonisti non era riuscito a smuovere dalle secche del primo impatto con le realtà elettorali ed i rapporti con gli altri partiti. Un impatto che provocò lo sfasciamento ed il naufragio. Raccogliere quel che ne restava fu merito di Marco Pannella e dei pochi altri che lo seguirono: Roccella, Bandinelli, Spadaccia, i fratelli Rendi.

Un atto di fede nella possibilità di una rinascita laica, liberale, progressista, che apparve un gesto di puntiglio, quasi un dispetto a chi aveva ritenuto esaurita quest’esperienza. Ma, dopo qualche anno, quella caparbietà veniva premiata dall’assunzione indiscussa ed indiscutibile della guida della campagna per il divorzio. L’esigenza di laicità ed il rifiuto del regime clericale instauratosi in Italia dopo il 18 aprile 1948, ma soprattutto, dopo il tramonto di De Gasperi, trovava un’occasione unica ed una base di concreta risposta alle esigenze della società in evoluzione. La lotta per il divorzio fu combattuta con una strategia esemplare, forse irripetibile, ma, soprattutto, con coerenza ideale che le consentirono di superare gli scogli delle prime avvisaglie di quel “compromesso storico“ che forse era stato pensato proprio in funzione di un ulteriore schiacciamento della cultura e delle posizioni politiche laiche in quella singolare contingenza. Il referendum del 12 maggio 1974, che un po’ tutte le forze politiche ed in particolare il Pci e la Dc, avrebbero voluto “scongiurare“ dopo che i Dc ne avevano agitato lo spauracchio contro l’approvazione della legge sul divorzio, consentì di verificare che la convinzione che le masse popolari fossero assai più arretrate della classe politica che le rappresentava in fatto di laicismo e di indipendenza dai voleri della gerarchia cattolica, convinzione nutrita fin dagli anni del Risorgimento, andava rivista e rovesciata.

Il regime clericale ne usciva delegittimato. L’ipotesi di una rivoluzione sociale da realizzare lasciando da parte la questione di questa supposta sudditanza, puntando esclusivamente sulle aspirazioni meramente economiche del proletariato, coltivata dal Partito Comunista, subiva una clamorosa smentita. I radicali potevano dirsi i vincitori di uno scontro storico. Da quel momento, il compito e la responsbilità di risollevare le sorti della democrazia liberale, laica, progressista, come forza e direttrice politica in Italia, sembrava loro attribuita. L’ingresso in Parlamento di una pattuglia radicale, con le elezioni del 1976, sembrò aprire concretamente questa fase. Intanto, veniva alla ribalta la questione dell’aborto. Un’altra realtà di fronte alla quale il regime clericale aveva, di fatto, chiuso gli occhi, negando che fosse proponibile ed accettando che il ricorso all’aborto dilagasse, in pratica senza controllo e limite, ponendo grotteschi ostacoli anche alla diffusione della contraccezione, che avrebbe potuto (come poi poté) ridimensionare le condizioni che rendevano endemico il ricorso all’aborto. Furono i radicali a rompere il silenzio e a proclamare la disobbedienza civile rispetto ad una legge penale di fatto applicata in casi rarissimi, in cui, cioè, “incidenti“ dovuti, per lo più, alla clandestinità erano già intervenuti a “punire“ la donna che avesse abortito.

Diversamente da quanto era avvenuto per il divorzio, si può dire che la questione dell’aborto sfuggì di mano alla impostazione radicale ed, anzi, che mancò una altrettanto coerente, liberale, impostazione. L’estremismo femminista non seppe che puntare sulla questione della gratuità, confondendola con quella dell’obbligatorietà della sede in strutture pubbliche delle pratiche abortive. Ne venne fuori una legge sull’“aborto di Stato“, in cui la normativa penale veniva, di fatto, conservata come presidio del monopolio pubblico dell’aborto. Bisogna dire che i cattolici si adattarono a questa soluzione in odio a quella liberale, puntando su quegli ostacoli che il meccanismo avrebbe dovuto finire per creare ad interventi abortivi tempestivi. Successo, dunque, a metà. Intanto, ai radicali toccava confrontarsi con un nuovo elemento della scena politica italiana, in essa presente, al di fuori dello scacchiere tradizionale: i gruppi della sinistra cosiddetta extraparlamentare (dal 1976 presenti alla Camera con le liste di Democrazia Proletaria). L’atteggiamento nei confronti di questi elementi e dei fenomeni ad essi connessi (il terrorismo rosso fu derivazione ed espressione di almeno alcuni di essi) non fu sempre del tutto lineare e coerente, come, del resto, non lo fu da parte di altre forze della sinistra.

Oscillò tra una repulsa ideale di fondo della violenza, predicata e praticata in quei settori e la comprensione di istanze, peraltro non sempre chiare e genuine che la generavano. L’opposizione radicale alle misure adottate per combattere il terrorismo (leggi speciali, pentiti, etc.) e, soprattutto, all’enfatizzazione del fenomeno terroristico, con la cassa di risonanza che essa assicurò ad ogni impresa di tale stampo, si è dimostrata non priva di ragionevolezza e di buon fondamento. La speranza, invece, di incanalare almeno alcune delle forze germogliate a sinistra del Pci, nell’alveo libertario – liberale, almeno nella sfera di influenza radicale, fu tentativo non privo di generosità e di qualche prospettiva, ma destinato a fallire di fronte alla chiusura culturale prima ancora che politica di quei gruppi, assai meno libertari di quanto potessero apparire ed assai più propensi all’autoritarismo ed al conformismo di quanto si poteva percepire. Dovrebbe essere stato ispirato a quella finalità di “conversione“ dell’ultrasinistra l’aver imbarcato nelle liste radicali per le elezioni del giugno 1979 un numero considerevole di esponenti di quell’ambiente: Boato, Baldelli, la Macciocchi, Pinto. Non dismisero la loro ostilità di fondo per ogni forza e politica liberale ed un certo sprezzo per il “velleitarismo“ radicale. Inoltre, la loro presenza valse a diluire e appannare o distorcere, in qualche modo, il significato della presenza nelle liste e poi in Parlamento di Leonardo Sciascia, che ben altra considerazione ed utilizzazione avrebbe meritato.

( 1 – continua)

Data: 
Venerdì, 30 December, 2005
Autore: 
Fonte: 
L'OPINIONE
Stampa e regime: 
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