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LAVORO E MODELLO DANESE - LA FLESSIBILITÀ ALL’ITALIANA

Testo: 

di ALCIDE PAOLINI

Scrivendo queste righe, mi sono chiesto se sia lecito a chi non è un esperto di economia entrare in un dibattito economico. Solitamente no, ma ritengo ci siano casi nei quali l’economia coinvolge talmente altre dimensioni sociali, che un punto di vista che arrivi dal di fuori potrebbe anche costituire uno stimolo ad approfondire il problema in discussione. Soprattutto in un momento come questo, nel quale non si fa altro che sollecitare o proporre alle forze politiche nostrane quei programmi con i quali dovranno misurarsi nei mesi che ancora ci separano dalle elezioni. Mi riferisco, in questo caso, all’interesse che sta suscitando il dibattito sulla flessibilità del lavoro.
Dibattito difficile quanto purtroppo indilazionabile anche secondo molti economisti di sinistra.
Un problema che sembra sia stato risolto in un paese che ha, tra l’altro, sia le imposte sia il Pil pro capite tra i più alti del mondo: la Danimarca (ma ci sono anche altri paesi, come Norvegia, Svezia e Olanda, che hanno adottato sistemi simili).
Il modello col quale si sarebbe risolto in quel paese tale spinoso problema, chiamato tecnicamente “flex-security“ (flessibilità in sicurezza), sembrerebbe tutto sommato abbastanza semplice. Dico sembrerebbe perché in economia, e soprattutto nell’economia dei meno fortunati, la chiarezza resta un’aspirazione mai realizzata compiutamente.
A leggere gli articoli con i quali gli esperti che si sono avvicendati sul tema hanno cercato di raccontarci il marchingegno escogitato dai danesi, si evincerebbe quanto segue. In Danimarca, che ha uno sviluppatissimo sistema economico industriale, il modello consentirebbe alle aziende, a seconda dell’andamento del mercato, e quindi della loro necessità, la possibilità di liberarsi delle maestranze in soprannumero con un semplice preavviso di pochi giorni. In compenso, il lavoratore dimesso (non dico licenziato per pudore) può usufruire di un sussidio di disoccupazione che va dall’ottanta al novanta per cento della retribuzione, per una durata di tre o quattro anni (qui le indicazioni non sono univoche).
E poiché la rapidità di questi trasferimenti, in una economia che tira, è fondamentale, la media del periodo di inattività dei lavoratori sembrerebbe limitata a pochi mesi. Naturalmente (o meglio, purtroppo) il lavoratore “dimesso“, in cerca di un nuovo posto, alla prima proposta alternativa che gli viene fatta dall’agenzia predisposta all’uopo, non può dire di no, anche se non si tratta dello stesso tipo di lavoro, pena la perdita di ogni diritto al sussidio. E non gli è consentito rifiutarlo nemmeno se il nuovo lavoro propostogli è fuori della provincia dove risiede. Può sorprendere che anche a questo proposito i lavoratori danesi si siano adattati senza grandi proteste, tuttavia va tenuto presente che in quel piccolo paese i trasferimenti non sono così traumatici, essendo le distanze relativamente ridotte. Il modello funziona? Il modello pare davvero che funzioni; ma non si può tuttavia ignorare che, in confronto all’Italia, ci sono alcuni aspetti che vanno valutati molto attentamente.
Il primo è costituito dal fatto che in Danimarca il sistema è ormai rodato da parecchi anni. Anni che, sia chiaro, non sono stati privi di difficoltà, risolte solo col tempo.
Il secondo riguarda appunto la dimensione del paese, che ha cinque milioni di abitanti, distribuiti su una superficie che è una volta e mezzo la Lombardia; il che significa, tra l’altro, che non ci sono grossi problemi di infrastrutture, come accadrebbe da noi. Il terzo si riferisce a una burocrazia che è tra le più efficienti d’Europa.
Il quarto, riguarda il fatto che si tratta di una popolazione di religione protestante, attenta perciò per cultura e tradizione al massimo rispetto delle regole e delle leggi. Il quinto, elemento da non sottovalutare, è il clima, perché, pur non essendo rigido come negli altri due paesi scandinavi, non è di quelli che inducono alla contemplazione o al loisir, come accade a chi è abituato ad avere il sole e la luce mediterranea.
Infine, c’è un ulteriore motivo che potrebbe indurci a dubitare della opportunità di adottare sic et simpliciter quel modello, ed è la constatazione che in Danimarca è in corso da qualche tempo un duro dibattito politico sulla tenuta o meno del modello stesso, il cui costo, in un periodo difficile quale quello che stiamo attraversando, potrebbe mettere a rischio l’economia del paese. Ma questa è la campana dell’opposizione, e ovviamente sarà d’uopo farci la tara.
Detto questo, se si vorrà adottare il sistema danese anche da noi, sarà bene studiarle tutte. In un paese di furbi (senza contare le mafie) come il nostro, esso potrebbe essere una tentazione irresistibile per quanti volessero guadagnarci sopra senza troppo faticare.
Già mi figuro l’apertura di aziende le quali, prima assumono i loro picciotti o comunque dei lavoratori facilmente ricattabili, come per esempio gli extracomunitari, e poi li licenziano, già con l’impegno di annettersi, che ne so, la metà del sussidio per tutta la sua durata.
Ma questa è, mi auguro, la solita malignità dell’italiano che si compiace di parlar male di se stesso.
P.S. Mi cresce tuttavia un interrogativo: e se, sia pure su questa base, studiassimo un modello ad personam?

Data: 
Lunedì, 5 December, 2005
Autore: 
Fonte: 
MESSAGGERO VENETO
Stampa e regime: 
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