di Barbara Alessandrini
Il dibattito sulla cosiddetta Corporate social responsability (Csr) in queste ultime settimane sta facendo la parte del leone in alcuni settori della finanza, del mondo imprenditoriale e al ministero del Welfare. E anche se, per ora, non ci sono leggi o decreti che obblighino le aziende in questa direzione ´morale´, già si parla di avviare una campagna nazionale per la sensibilizzazione nei confronti di quello che al momento sembra essere sempre più un binomio vincente, quello etica-affari. In attesa di fare la ´sua scelta´ politicamente parlando, Benedetto Della Vedova, mente economica del partito radicale, esprime tutta la sua diffidenza nei confronti di un trend che rischia di provocare interferenze e forzature normative e di vincolare le imprese all´introiezione di ´valori´ oltre che al perseguimento di obiettivi sociali imposti.
Si parla sempre più spesso dell´opportunità di applicare standard morali nella cultura d´impresa e nel business model. Come valuta questo fenomeno?
In generale diffido da qualsiasi teoria aziendale che parta da un presupposto diverso da quello che le aziende devono organizzarsi al meglio per ottimizzare i profitti e creare valore per gli azionisti nel rispetto delle regole.
Secondo i paladini della ´social responsability´, però, è proprio il binomio etica-impresa che rafforza la competitività. Ha senso contrapporre il concetto di impresa responsabile a quello di impresa irresponsabile?
Questo innesto della responsabilità sociale all´interno di aziende che nel loro agire tengano conto di una serie di altre opzioni oltre a quelle della massimizzazione dei risultati non mi convince affatto, specie se dovesse un giorno verificarsi in un quadro non di volontarietà ma di imposizione normativa o di incentivo di tipo fiscale. Se il capitalismo mondiale nelle proprie scelte aziendali, tenesse conto della qualità dell’ambiente e della vita dei lavoratori e dell’interesse di tutta un’altra serie di ‘stakeholders’ oltre le prescrizioni di legge, io credo che l’efficienza complessiva del sistema prenderebbe un duro colpo.
Indubbiamente però il modello della ´moralizzazione aziendale´ come nuova cultura d´impresa si sta facendo strada nel panorama mondiale. Tanto che alcuni esponenti del pensiero manageriale e finanziario sono giunti alle estreme conclusioni di identificare nella religione cattolica il ´set´ di valori ottimali intorno a cui rafforzare spirito identitario e coesione interna, fondamentali alla redditività delle corporation. Siamo di fronte ad un cambiamento di sensibilità? e soprattutto il ´bene´, che si tratti di morale cattolica o meno, è davvero il miglior lievito per il mercato?
Ma va tutto bene, purché le imprese operino scelte su base volontaria, quindi come strategie di marketing, anche sofisticate. Ad esempio stipulando i bilanci sociali e valorizzando linee diverse da quelle della massimizzazione del risultato aziendale. E soprattutto lo facciano seguendo una logica strettamente di mercato perché ritengono che quello che vendono si accresca in valore se agli occhi dei consumatori trasferisce anche informazioni sulle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro all’interno dell’impresa.
Stato meno che minimo, dunque, in questo frangente…
Certo perché si tratta di scelte su base volontaria. Il mercato si autoregola. L’unico ruolo che lo Stato potrebbe avere, naturalmente non necessario, è quello di garantire la veridicità delle certificazioni rispetto al bilancio sociale, insomma che non ci siano dei falsi. Anche se ritengo che a questo scopo potrebbero funzionare molto meglio agenzie di certificazione private.
Resta sbagliato ipotizzare che lo Stato possa intervenire con delle prescrizioni normative o più semplicemente con degli sgravi fiscali per invogliare l’azienda a muoversi in una direzione ‘etica’. Il punto quindi non è di essere contro al fatto che alcune aziende si organizzino in questo modo…
Ma non pensa che proprio il mercato, senza ricorrere ad impostazioni eticizzanti, nel lungo periodo, selezioni chi vi opera marginalizzando la scorrettezza?
Il mercato che funziona comprende tanti aspetti, non ultima una stampa libera, indipendente e aggressiva, e si basa sulla reputazione degli attori quindi risponde a dei meccanismi di autoregolamentazione e di premio delle ‘best activities’. Oltretutto, i cosiddetti delinquenti ambientali o chi alimenta il lavoro in nero al di fuori delle previsioni contrattuali, vengono sanzionati anche penalmente.
Appunto. Allora che cosa ci si aspetta in più da un´eventuale forzatura normativa volta all’eticizzazione aziendale rispetto agli elementari obblighi di legge cui è sottoposta qualsiasi impresa?
Quando affrontiamo l’argomento della teoria della responsabilità sociale d’impresa parliamo di un’aggiunta rispetto ai comportamenti ritenuti virtuosi dalla normativa esistente. Assolutamente accettabili se questi comportamenti vengono assunti sulla base delle dinamiche di mercato, dell’attivismo dei consumatori, come nel caso della Nike, che ad un certo punto ha iniziato a certificare che il lavoro aziendale era condotto senza sfruttamento del lavoro minorile. Ma lo ha dovuto fare perché chi compera Nike compera l’immagine e chiede di non identificarsi con un marchio edificato sul lavoro nero. Ma, ripeto, questo è un meccanismo di mercato.
In effetti mentre da noi l´attuale dibattito sulla cosiddetta Rsi lascia pensare che si stia accarezzando la prospettiva che lo Stato possa invogliare le aziende alla scelta etica, nei paesi anglosassoni esistono compagnie che, spontaneamente, sono state edificate, ad esempio, su una forte influenza religiosa…
Le aziende hanno una funzione straordinaria in un paese liberale ed è quello di produrre ricchezza entro il quadro di regole, per altro sovrabbondanti in tutte le dimensioni chiamate in causa, da quella ambientale, a quella sugli orari di lavoro a quella sulla sicurezza sul lavoro, contro il mobbing, fino all´ art 18. Poi ci sono economisti industriali che propongono modelli meno tradizionali. Dobbiamo prendere atto di questi modi alternativi di organizzare l’attività d’impresa. Non bisogna porre vincoli, sempre nell’ambito delle normative, alla creatività degli azionisti, dei proprietari e dei manager. Quello della California è un esempio lampante di questa creatività, aiutata dal crogiolo etnico-culturale e razziale del paese. Io però resto convinto che lo schema tradizionale legato all’incentivazione dei dipendenti funzioni meglio. Prendiamo ad esempio il modello giapponese dell’impresa famiglia, che sembrava inattaccabile e supercompetitivo, poi è entrato in crisi.
E allora perché tanta insistenza sullo standard morale delle aziende?
Quando queste riflessioni portano all’intervento legislativo, vedo un retro-pensiero, nemmeno troppo retro, antindustrialista e anticapitalista. E tengo ben presente l’insegnamento di Adam Smith: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse