di Valter Vecellio
Uno dei "comandamenti" non scritti del giornalismo dice che le fotografie si "leggono", mentre gli articoli si "guardano". Vi sono infatti fotografie destinate a diventare simboli, restano impresse nell'immaginario collettivo, assumono significati che vanno al di là dell'episodio contingente fissato dalla pellicola. Nell'ideale album di fotografie che hanno segnato gli ultimi trent'anni, certamente ve ne sono due: l'inerme, ancor oggi sconosciuto ragazzo che sulla sterminata piazza Tien An Men di Pechino, da solo, "armato" solo del suo corpo blocca la marcia di una lunga colonna di carri armati, arrivati a stroncare la rivolta degli studenti, che chiedono libertà e democrazia. L'altra fotografia simbolo di quella disperata rivolta mostra un anziano con in mano un megafono. Il viso dell'uomo in parte è coperto da enormi, antiquati occhiali da miope; ma l'istantanea riesce a fissare delle lacrime che gli rigano il volto. Si chiama Zhao Ziyang, quell'uomo: è il segretario generale del Partito Comunista Cinese.
E' circondato da migliaia di studenti, li scongiura di mettere la parola fine alle proteste e alle manifestazioni che in appena quarantotto ore hanno finito con il coinvolgere a Pechino e in altre città, oltre un milione di persone. Ziyang sa che il suo appello cadrà nel vuoto, gli studenti non recederanno; sa anche che ormai è impossibile fermare la poderosa macchina della repressione. Ziyang sa di rappresentare praticamente se stesso: il potere vero è nelle mani del capo della pianificazione di Stato, Yao Yilin; e di Li Peng, figlio adottivo di Zhou Enlai: leggendaria figura, quest'ultima, della rivoluzione cinese, che già nel 1973 lo aveva "salvato" dal confino in Mongolia interiore, e gli aveva affidato la guida del partito nella provincia dello Sichuan. Non c'è più Zhou Enlai a proteggerlo, e Yilin e Li Peng sono riusciti a convincere il potente Deng Xiaoping a schierarsi dalla loro parte. Deng controlla con pugno di ferro le forze armate e l'apparato della sicurezza. Ziyang, quando va sulla piazza a scongiurare gli studenti, è consapevole di tutto ciò. Sa che la sua stessa sorte è segnata. Ma come un personaggio scespiriano, non si sottrae a quello che considera il suo imperativo.
E' la mezzanotte del 19 maggio del 1989: quando si presenta sulla piazza gremita di studenti. Sale le scale del monumento agli eroi, al centro della piazza, con lo sguardo abbraccia l'immensa distesa di pacifici manifestanti. Non sapremo mai cosa pensa il vecchio combattente di mille battaglie, ma lo si può immaginare: prova vergogna, per quello che tra poco accadrà. Sa che Deng proclamerà la legge marziale, con l'ordine di sparare a vista. Tutto ciò lo ripugna, sa che è la tragedia è ineluttabile, non ne vuole comunque essere complice. Qualche giorno dopo si consuma un vero e proprio golpe: Ziyang è deposto senza tanti complimenti, gli organi del partito non vengono neppure convocati. Jiang Zemin, segretario di Shangai è nominato al vertice del partito. Ziyang viene recluso agli arresti domiciliari. Ne esce solo quando, gravemente malato al cuore e ai polmoni, viene ricoverato in ospedale. Non è più comparso in pubblico, da quel maggio del 1989. Le scarse notizie che filtrano da Pechino riferiscono che ha avuto una lunga, agonia, penosi giorni di coma, infine il tracollo.
Nato nel 1919, figlio di una famiglia benestante della provincia di Henan, Ziyang aveva aderito alla gioventù comunista a tredici anni, nel 1932. Non era mai stato un funzionario ortodosso, tutt'altro: sempre sensibile ai turbamenti sociali, tra i primi aveva sostenuto la necessità della modernizzazione. Queste sue doti di pragmatismo e di moderazione sono apprezzate, ma al tempo temute. Il primo importante incarico risale al 1960, segretario della provincia di Guangdong. Si schiera a favore delle riforme auspicate da Liu Shaoqi, così quando nel 1966 scoppia la cosiddetta "rivoluzione culturale" Ziyang è tra gli epurati. Destituito dalle cariche di partito, è fatto sfilare per le vie di Guangzhou alla gogna. Solo quando la famigerata "Banda dei quattro" che aveva ispirato la "rivoluzione culturale" viene liquidata, gli uomini come Ziyang tornano a contare. Deng Xiaoping lancia il famoso slogan: "Arricchirsi è glorioso", si tenta di guidare il cambiamento limitandolo alla sola sfera economica.
Il mondo però in quegli anni segue ritmi diversi da quelli che la gerontocrazia al potere a Pechino cercano di imporre. In Polonia trionfano Lech Walesa e Solidarnosc; cade il muro di Berlino, crolla l'impero sovietico, nonostante il tentativo di Mikhail Gorbaciov di salvare il salvabile con la glasnost e la perestrojka. La Cina non resta immune dal vento di libertà, ed è la Tien An Men.
Ziyang sapeva perfettamente che schierandosi con gli studenti avrebbe segnato la sua fine politica, sapeva di imboccare un lungo tunnel senza uscita. Sono passati quindici anni da quei tragici avvenimenti. Per una beffa della storia il premier della Cina del libero mercato è Wen Jiabao: che la sera del 19 maggio 1989 era a fianco di Ziyang. Oggi anche lui tace, non una parola per il suo vecchio compagno. Democrazia e libertà sono ancora parole senza significato, in Cina.