Le scrivo, caro Mieli, innanzitutto, per rispetto nei confronti di me stesso: quando, due anni fa, io e i miei quattro compagni radicali lasciammo la prigione di Vientiane (Laos) - dove eravamo rimasti rinchiusi quindici giorni per aver semplicemente aperto in piazza uno striscione con su scritto «Democrazia, Libertà e Riconciliazione in Laos» - i prigionieri che rimanevano nel carcere ci strinsero la mano implorando: «Non dimenticateci!». Io sono stato fortunato, sono tornato a casa; i cinque studenti laotiani scomparsi nel 1999 - dopo aver manifestato come noi radicali, pacificamente - sono ancora ombre senza storia; non si sa nemmeno se siano vivi o morti...
Bruno Mellano
Caro Mellano, lei, da consigliere radicale alla Regione Piemonte, da tempo conduce una meritoria campagna di sensibilizzazione sul dramma del Laos. So bene che, come lei scrive in una parte della sua lettera che ho dovuto tagliare, i laotiani continuano a essere oppressi da una feroce dittatura comunista, spalleggiata da un vicino potente, il Vietnam, che si fa forte sia dei commerci illegali (oppio, innanzitutto) sia, purtroppo, dei lauti finanziamenti che gli arrivano dalla Comunità europea (e, quindi, anche da chi sta leggendo questa rubrica). Il risultato è di una qualche bizzarria. Ai primi di gennaio il regime comunista di Vientiane in cerca di legittimazione dedicò un giorno di festa al «padre dell'unità laotiana» cioè a Fa Ngum, fondatore nel XIV secolo del «regno di un milione di elefanti». Un corteo di elefanti rivestiti di lussuosi manti che procedeva al ritmo di tamburi e al suono di musiche tradizionali giunse al sito dove sarebbe stato scoperto il monumento dedicato al fondatore di quella dinastia, che avrebbe continuato a regnare fino alla deposizione del re Savang Vatthana nel 1975 da parte dei comunisti stessi. Questo il volto scelto dal regime per essere ai nostri occhi più presentabile. Ma poi, ovviamente, la repressione che lei ha assaporato si è puntualmente rimessa in moto. Tra giugno e luglio sono stati arrestati, condannati a quindici anni di detenzione (e poi, come capitò a lei, liberati alla chetichella) il giornalista belga Thierry Falise e il francese Vincent Reynaud. Secondo l'accusa si erano resi complici dell'uccisione di un agente a Ban Khai, nei pressi di Phonesavanh (nel Nordest del Laos); ma la loro vera colpa era quella di aver prestato aiuto, con dei reportage giornalistici, alla superstite comunità Hmong che tra il 1973 e il 1975 si era schierata a fianco degli americani e da allora è osteggiata dal governo comunista di Vientiane. Al punto che moltissimi Hmong hanno dovuto abbandonare il loro Paese e trasferirsi negli Stati Uniti dove hanno dato vita a comunità, la più grande delle quali è in Minnesota.
Ora lei, caro Mellano, domanda: dobbiamo rassegnarci, voltare la testa dall'altra parte? E risponde che se lo facessimo «non sarebbe serio». «Due anni fa - aggiunge - constatai sulla mia pelle quanto avesse pesato la mobilitazione internazionale (gli articoli della stampa, le firme dei consiglieri regionali e dei sindaci piemontesi) per la nostra liberazione; questa mobilitazione deve continuare, deve ripartire anche per chi giace ancora dietro le sbarre delle cento prigioni laotiane, innanzitutto per i cinque desaparecidos dal 26 ottobre 1999». Per questo, rivolge a me e ai lettori un invito: «sul sito www.grupporadicalipiemonte.it (oppure telefonando allo 011/230.90.02) è disponibile il testo di una lettera da inviare via fax al governo del Laos per chiedere la liberazione dei cinque leader studenteschi; è un'iniziativa piccola ma alla portata di tutti; il presidente del Piemonte Enzo Ghigo, l'assessore regionale alla Cultura Gianpiero Leo, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino hanno trovato il tempo per farla; fatelo anche voi! E chi voglia, magari, approfondire il problema dei diritti umani e civili in Laos e in tutta l'Indocina, può ordinare in libreria "Indocina libera - Il caso Laos trent'anni dopo - Dove la democrazia è reato" (edizioni "liberal libri", prefazione di Emma Bonino), il libro che ho scritto assieme a Massimo Lensi (che condivise con me le carceri laotiane) per "non dimenticare"».
Così, in conclusione, mi sembra giusto raccogliere questo suggerimento che viene da Torino e cominciare dal Laos.
Anche se qualche lettore mi obietterà: con tutti gli argomenti che ci sono, dobbiamo occuparci proprio del Laos? Credo proprio di sì: se vogliamo evitare nuove guerre, l'unica via è quella di prestare attenzione ai casi cronici del pianeta adesso, in tempo di pace.
Paolo Mieli