di Francesco Pullia
C'è un'isola delle Grandi Antille, assoggettata dal 1959 ai voleri dispotici di un satrapo delirante e sanguinario, che continua ad essere la cartina di tornasole tra autentici democratici e cialtroni invaghiti del sogno, falso, stereotipato, reazionario, di una pseudorivoluzione costruita con la canna del fucile. Quest'isola si chiama Cuba ed evoca ai più l'immagine, artatamente veicolata, di piaceri consumati in spiagge assolate tra aromi di sigari ed etilici fumi di bevande a base di rum. Mito per la deficientia (altro che intellighentia!) nostrana che, con arroganza e crescente cinismo, si nutre della peggiore retorica comunista per mascherare sotto sembianze populiste la spietata difesa di privilegi, di cospicui favori acquisiti all'ombra del malaffare partitocratico e dell'accattonaggio postsessantottino, Cuba è in realtà un inferno per oltre undici milioni di abitanti, ridotti dal dittatore Fidel Castro in condizioni di vita abiette e precarie.
In un paese in cui sono negate la libertà di parola e d'informazione (risulta difficile, se non impossibile, persino telefonare all'estero), le medicine sono introvabili, le case fatiscenti, i diritti dei lavoratori inesistenti, la corruzione è organizzata e legalizzata, l'istruzione pressoché nulla, medici e ingegneri faticano di fatto ad espatriare, l'economia sembra reggersi sul turismo e sulla prostituzione dilagante e si sopravvive con poco più di dieci euro al mese, il barbuto despota (che negli anni sessanta un intellettuale al di sopra di ogni sospetto come Alberto Moravia paragonò a Mussolini) non ha trovato niente di meglio che allestire, qualche giorno fa, un'imponente messinscena contro il governo italiano e quello spagnolo, rei d'avere avuto un ruolo di primo piano nelle recenti condanne (peraltro blande) pronunciate dall'Unione europea. Una manifestazione in grande stile, secondo il canone delle pagliacciate totalitarie, rivelatrice, tuttavia, della grave debolezza in cui versa il regime del lider maximo, un regime che, mentre a Baghdad, grazie all'intervento americano, venivano rovesciate le statue di Saddam, profittando della disattenzione internazionale provvedeva ad arrestare e condannare ottantatré oppositori la maggior parte dei quali sostenitori del cosiddetto Progetto Varela (dal nome di un sacerdote protagonista due secoli fa della lotta per l'indipendenza cubana), un programma che, forte delle undicimila sottoscrizioni di cittadini che più di un anno fa hanno sfidato vessazioni e minacce, si basa sulla richiesta di un referendum popolare per l'introduzione delle libertà democratiche.
Castro, accusato d'avere fatto passare per le armi quarantacinquemila dissidenti, efficacemente ribattezzato da Emma Bonino come "un Torquemada dei nostri giorni", sa di essere in crisi e che la sua satrapia ha i giorni contati. Il suo è il dimenarsi del mostro che, pur rantolando, vuole infliggere i suoi colpi mortali. Nessuno dei pacifisti che hanno difeso sino all'ultimo la feroce dittatura di Saddam Hussein, sparando a zero contro "l'aggressione" americana, ha saputo spiegarci il motivo di un silenzio omertoso nei confronti di quanto accade nello stato caraibico. Un silenzio, anche stavolta, complice, connivente. Nessuno di questi signori che continuano ad avere appesa alle loro finestre la bandiera iridata ha pronunciato una sola parola di apprezzamento per la lotta di Osvaldo José Paja SardiÀas, premio Sacharov per i diritti umani 2002, invitato nel nostro paese, per essere ascoltato, dalla Commissione esteri della Camera dei deputati.
Al contrario, per sabato 28 giugno comunisti cossuttiani, bertinottiani, antimperialisti, diessini della corrente di Socialismo 2000, verdi e verdastri con l'immancabile contorno di qualche sacerdote no global e di qualche teologo hanno annunciato una manifestazione a Roma, in piazza Farnese, a sostegno della parata castrista e delle sue farneticanti motivazioni. Non sarebbe male se, in risposta, si cominciassero a diffondere gli slogan, da sempre scanditi dai radicali italiani, "Cuba libera", "Castro vattene". Con buona pace dei rivoluzionari italiani dalla erre arrotata e con il panfilo ormeggiato.