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«Sull´attacco a Saddam il fronte arabo è diviso come l´Unione europea»

Testo: 

IL LEADER RADICALE ANALIZZA DAL CAIRO L'UMORE POPOLARE E DEI MEDIA
Emma Bonino: qualcuno afferma che sarebbe meglio uno scossone che la paralisi attuale, con la sua stagnazione economica. «I giornali più importanti sono governativi, ma le loro opinioni sono anti-Usa»

ANCHE nel mondo arabo cresce il fronte contrario a Saddam Hussein, non solo tra i giornali indipendenti, ma persino in quegli sprazzi di opinione pubblica che riescono ad esprimersi nonostante le carenze democratiche di quell'area. E se l'Europa ha dimostrato di essere divisa di fronte ad un attacco in Iraq, anche la Lega Araba ha i suoi problemi, tanto che «Al Hayat», il quotidiano libanese che è uno dei più diffusi del Medio Oriente, ne scrive il suo necrologio, per gli attacchi di Kuwait e Qatar al segretario generale Amr Moussa. Analizzata dal Cairo, dove presto dovrebbe arrivare Berlusconi in una missione «last minute» la prossima settimana dopo un giro in Giordania e Arabia Saudita, la crisi irachena assume un altro aspetto di come la si vive nelle capitali europee, tra dibattiti in Parlamento e marce della pace. E' quanto racconta Emma Bonino, deputata europea e «allieva» di arabo nella capitale egiziana da oltre un anno: prima di andare ad una lezione di dialetto presso i padri comboniani che hanno la loro sede a pochi passi dalla sua casa in affitto, la leader radicale (che ha lasciato tutti gli incarichi di partito per buttarsi a capofitto in questa nuova avventura), ci racconta quanto sta accadendo nell'area più «calda» del mondo.

Onorevole Bonino, perché ha lasciato l'Europa?

«Chiariamo: sto qui al Cairo dieci giorni al mese, quando mi lascia libera l'attività del Parlamento di Strasburgo, grazie alla disponibilità del gruppo radicale. Voglio imparare la lingua, capire questa cultura, saper interpretare la frontiera Sud dell'Europa per la quale nessuno ha un progetto politico. C'è per l'allargamento a Est dell'Ue, ma non per questi Paesi. Ho incominciato nel giugno del 2001 a studiare, e ovviamente dopo l'11 settembre le ragioni per farlo sono aumentate».

Quali sorprese le ha riservato questa fase di studio?

«Nel mondo occidentale si pensa che il mondo arabo sia tutto uguale, dalla Turchia al Marocco. Invece è variegato e complicato. L'altro giorno sono stata ospite di un dibattito via radio con la Bbc inglese e un giornalista cosiddetto esperto usava, come se fossero sinonimi, le parole "arabo" e "musulmano". E' come se un egiziano usasse i termini "europeo" e "cattolico" attribuendo loro lo stesso significato. In realtà, vi sono molti Paesi geograficamente arabi ma laici, come la Turchia, la Siria, la Tunisia, l'Arabia Saudita».

C'è qualcosa che li accomuna?

«Sì, il loro comune denominatore è che sono tutti scarsamente democratici. Mi faceva notare recentemente un amico intellettuale che la Lega Araba è l'unico organismo regionale nel panorama internazionale in cui non c'è neppure un Paese con regime democratico. Purtroppo in questa parte del mondo non è comune cambiare il presidente per via elettorale. Del resto recentemente il rapporto delle Nazioni Unite sullo "sviluppo umano nel mondo arabo", realizzato da 40 intellettuali di quest'area guidati dalla ex vicepremier giordana, ha evidenziato che ci sono tre condizioni di arretratezza da superare: la mancanza di una "governance"; l'esclusione di metà popolazione, le donne; i ritardi tecnologici e nell'istruzione».

Anche sulla crisi irachena le posizioni sono differenziate?

«In Egitto c'è una parte di intellettuali che tenta di superare la cortina conformista. E' vero, stamattina per le vie del Cairo sono sfilate mille persone contro la guerra in Iraq, ma se il governo volesse, andrebbero in piazza milioni di egiziani. Invece alcuni editoriali sui giornali che non hanno sede a Londra ma sono stampati qui, come il "Cairo Times", hanno scritto che sarebbe meglio uno scossone nel mondo arabo piuttosto che la paralisi attuale. E la stagnazione economica si accompagna ad una crescita demografica molto forte».

Con quali conseguenze?

«Guardi, qui siamo come in un grande giardino d'infanzia, la maggioranza della popolazione è sui 25 anni. Oggi in Egitto vivono 70 milioni di persone, e tra una generazione si prevede arrivino a 140. E questo succede anche in Arabia Saudita, dove pure sono seduti sul petrolio. Un principe che ho incontrato in un aeroporto mi ha detto: "Sarà difficile diventare poveri". Ma il loro reddito pro capite è passato dai 25 mila dollari di 15 anni fa agli attuali 7 mila».

Esiste un'opinione pubblica e che cosa pensa del possibile conflitto in Iraq?

«Sicuramente la crisi tra Israele e Palestina è molto più sentita di quella irachena. E lo dimostrano i giornali egiziani, che pubblicano vignette in cui Sharon viene sempre identificato come "il macellaio" e i kamikaze palestinesi come i "martiri". Eppure qualcosa si sta muovendo, come le dicevo, anche sui giornali. Qualcuno incomincia a paragonare l'auspicata caduta del regime di Saddam con la liberazione da Hitler e Mussolini operata dagli americani durante la Seconda Guerra Mondiale in Europa. Il dittatore di Baghdad è indifendibile, e tutti i giornali ormai lo invitano a dimettersi. Quanto all'opinione pubblica, è difficile che si riesca ad esprimere».

Perché?

«Me lo ha spiegato un mio amico scrittore l'altro giorno. Non si può dire che qui non vi sia la libertà di espressione. Semplicemente non c'è la libertà dopo che si è espressa una propria opinione. Le Organizzazioni non governative, le Ngo, sono appena tollerate ma non legalizzate appieno. In Tunisia, per esempio, non esistono. In Siria è noto il ruolo dei servizi segreti».

E la grande stampa?

«I più importanti quotidiani, come «Al Akhbar» o «Al Ahram» sono governativi. Sono molto diffusi, non si pensi che siano soltanto espressione di una èlite, ma le loro opinioni sono in genere anti-americane e molto spesso ospitano vignette assai critiche con Bush e i suoi alleati. Nonostante le interviste di Mubarak ai quotidiani occidentali, in cui si sostiene che "nessuno può fermare l'America" e che la priorità "è rivolgerci a Saddam Hussein affinché consegni le armi"».

Vengono analizzate le differenze all'interno dell'Europa, tra la linea di Francia e Germania e quella di Gran Bretagna, Spagna e Italia?

«Sì, ma negli ultimi giorni, dopo il fallimento del vertice della Lega Araba per le posizioni forzate dal suo segretario, contro il quale hanno protestato Kuwait e Qatar, bloccando quella dichiarazione tesa a negare l'uso delle basi per gli Americani, i giornali mettono a confronto le due divisioni. Moussa in una intervista ha spiegato che la frattura nei 22 Paesi che rappresenta non è molto diversa da quella dell'Unione Europea. E tutti i giornali invece da giorni parlano con grande considerazione di Chirac e delle posizioni che ha assunto nei confronti di Bush».

Forse dal Cairo si capiscono un po' meglio le ragioni per cui lo ha fatto...

«Appunto. Ne esce in modo molto positivo. Adesso l'attenzione è rivolta al vertice del primo marzo, quando i leader della Lega Araba si ritroveranno al Cairo per una riunione "ordinaria" anziché "straordinaria": è una telenovela molto simile ad altre già viste in Europa».

Ha trovato riferimenti al prossimo viaggio, non ancora ufficializzato, di Berlusconi in Egitto, Giordania e Arabia Saudita?

«I giornali egiziani si sono occupati dell'incontro tra il presidente del Consiglio italiano e Blair, e su "Al Akhbar" il titolo è significativo: "Berlusconi prepara la guerra alla pace"».

E le televisioni?

«Seguo molto "Al Jazeera", che ha duecento milioni di telespettatori di lingua araba. E ho notato che è diventata assai islamista, attirando anche le critiche dei giornali più laici perché sarebbe diventata il microfono di Bin Laden, in termini reali e metaforici. Venerdì, nel giorno della preghiera, hanno spiegato per filo e per segno, traducendo i servizi pubblicati in Occidente da "Newsweek" e "Observer", sia il piano di battaglia americano per la guerra sia le scelte dell'amministrazione americana dopo il conflitto. Eppure ci sono sondaggi che spiegano come il sogno dei giovani di qui, in realtà, resti "americano" o comunque occidentale: vogliono arrivare a vivere secondo quello stile».

Quali novità sul dopo-Saddam?

«Lo ha spiegato recentemente "Al Hayat": gli Stati Uniti hanno preso le distanze dalla opposizione interna irachena e ormai sono convinti di dover trattare il Paese, dopo la guerra, come un protettorato. Come fecero in Giappone dopo la vittoria della Seconda Guerra Mondiale, non potendosi fidare di nessuno».

Quale soluzione sarebbe invece auspicabile, onorevole Bonino? Il Parlamento italiano ha votato compatto per la vostra proposta di esilio per Saddam.

«Già, è passata la parte meno importante. Noi però chiediamo, con l'appello di Pannella, che il Consiglio di Sicurezza decida da subito di porre l'Iraq sotto un regime di amministrazione fiduciaria internazionale, un governo democratico. E' davvero molto diverso da un protettorato americano».

Quali conseguenze ne trae?

«Il problema non è ovviamente convincere Saddam ad andarsene. Ma molti stanno tentando seriamente di sostituirlo: le notizie del tentato colpo di Stato da parte del suo ministro alla Difesa, poi smentite, sono state pubblicate con grande evidenza: anche il mondo arabo vuole disfarsi di Saddam».

Data: 
Domenica, 23 February, 2003
Autore: 
Fonte: 
LA STAMPA
Stampa e regime: 
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