SALVACONDOTTO PER SADDAM, PURCHÉ LASCI IL POTERE?
IN giorni di angoscia per l'incombere di una nuova guerra sono parecchi a proporre, con varie modalità, un'alternativa: l'allontanamento, più o meno consensuale, di Saddam Hussein dall'Iraq.
C'è l'iniziativa dei radicali per un suo esilio, accompagnato dalla costituzione di un governo provvisorio sotto l'egida dell'Onu. Ci sono le ammissioni circa una sollecitazione del governo italiano per una mediazione libica in vista della concessione di una sorta di asilo. Perfino dagli Stati uniti vengono, almeno formalmente, segnali di assenso a un salvacondotto, purché Saddam sia definitivamente allontanato dal potere che detiene.
Prospettive realistiche o no? Certo, l'eco non è soltanto quella di un qualsiasi scoop: ne sono colpiti anche gli scettici, purché non accettino come ineluttabile lo scenario, altrimenti sempre più probabile, dei bombardamenti e delle distruzioni e di una non meno probabile recrudescenza del terrorismo antagonista. D'altronde, non si dice che la speranza è l'ultima a morire? Per dei credenti, poi, vale persino l'apparente paradosso della «speranza contro ogni speranza».
Viene dunque spontaneo l'augurio che qualcosa vada in porto: tanto più se per questo tramite, al di là dell'eliminazione di un sanguinario dittatore dalla scena interna e internazionale, dovesse davvero aprirsi, per un'area geografica martoriata, la speranza di una pace non effimera e di uno sviluppo autenticamente democratico.
C'è un «ma», che non si vorrebbe apparisse soltanto come l'ubbìa dell'azzeccagarbugli. Se infatti le promesse di asili o di salvacondotti sono serie, non si può pensare di fare, poi, finta di aver scherzato e di imbastire, come se niente fosse, un processo giudiziario a Saddam, una volta allontanato dall'Iraq, per punirlo degli orrendi crimini che ogni giorno gli si addebitano.
Come la mettiamo, però, con uno dei fondamenti su cui si va edificando, sia pur faticosamente, un sistema di giustizia penale internazionale? Milosevic è pur sotto processo davanti al Tribunale dell'Onu per l'ex Jugoslavia; e a sua volta lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale che sta per entrare in funzione su scala planetaria, esclude che la qualifica di capo di Stato o di governo renda immune da pena chi si macchi di delitti contro l'umanità. Ora, è bensì vero che né gli Stati uniti né l'Iraq hanno ratificato il Trattato istitutivo della Corte internazionale permanente; inoltre, per statuto, questa non è, in via generale, competente a giudicare crimini commessi prima del luglio 2002, data di entrata in vigore del Trattato stesso: nessuna possibilità, dunque, a quanto pare, che abbia mai a occuparsi, ad esempio, del massacro dei curdi, perpetrato alla fine degli anni Ottanta.
Resta egualmente la sensazione di una discrepanza tra l'idea dell'«esilio dorato» per un personaggio particolare e gli sforzi che si sono fatti per abolire, di fronte ai più gravi delitti contro il genere umano, ogni immunità. A meno di limitarsi ad ammettere che non può mai valere il «fiat iustitia pereat mundus».
Mario Chiavario