You are here

«Appunti di viaggio fra i detenuti del 41 bis»

Testo: 

DOPO LE VISITE ALLE SEZIONI SPECIALI DEGLI ISTITUTI DI PENA INTERVIENE IL CONSIGLIERE REGIONALE MELLANO
Oggi a Novara e Cuneo i radicali presentano il libro di Turco-D'Elia sul carcere duro

Quando nel luglio scorso sono andato a visitare quel «carcere nel carcere» che è la sezione speciale del 41 bis di Cuneo, i detenuti condannati a pene definitive erano poco più della metà: 54 su 90. Gli altri erano ancora, secondo il nostro ordinamento, degli «innocenti» accusati di reati più o meno gravi (11 dei quali in attesa della sentenza di primo grado) che stavano al 41 bis senza essere stati condannati a pene pesanti e definitive.
Bastano questi dati a dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il 41 bis non è un'estrema e durissima misura di sicurezza. Serve ad altro: a qualcosa di più o meno inconfessabile, ma assolutamente evidente. Ci sarebbe molto da discutere sull'idea che il senso di rivalsa nei confronti di alcuni «feroci» condannati, che porta a negare loro tutte le garanzie e le condizioni ordinarie di detenzione, possa essere un risarcimento effettivo del dolore delle vittime.
Sarebbe davvero utile discuterne, e capire perché un paese che ha giustamente rifiutato la disumanità della pena di morte debba accettare la disumanizzazione di una pena detentiva solo perché non comporta direttamente l'esecuzione del detenuto. Ma il 41 bis - cioè quella deroga legale alle norme dell'ordinamento penitenziario - ha una giustificazione ufficiale di diverso tipo: non serve a punire duramente i peggiori criminali, dovrebbe servire a impedire le comunicazioni e le relazioni con l'esterno, dovrebbe spezzare le catene di comando all'interno del mondo criminale. Ma i conti non tornano. Al 41 bis si trovano anche condannati a 6 anni per reati non di sangue e neppure di associazione mafiosa. Oppure detenuti che inanellano da 4 anni e mezzo una assoluzione dietro l'altra, e, a ogni assoluzione, una nuova imputazione che li ricaccia al 41 bis. Che cosa ci fanno, loro, sepolti vivi al 41 bis? Perché dovrebbero avere diritto a un solo colloquio al mese coi familiari (o, in alternativa, una telefonata al mese), vivere in celle bunker schermate, non godere di diritti e benefici riservati, nel «carcere normale», a detenuti condannati a pene molto più lunghe, per reati molto più gravi? Ecco perché: il regime del 41 bis «chiarisce che si esce dal carcere duro solo con la dissociazione o il pentimento». Queste parole, pronunciate da un magistrato oggi deputato, sono negli atti parlamentari. Ecco a cosa serve il 41 bis: a far parlare i detenuti, a produrre dichiarazioni di correità. Il 41 bis è la fabbrica dei pentiti. Questo 41 bis è allora inconcepibile in uno stato di diritto perché consegna alle dichiarazioni convenienti e utili di pentiti (o presunti tali) l'andamento dei processi, producendo - e uso volutamente le parole di Enzo Tortora - valanghe di condanne per «pentito dire». Ma è ancora più inammissibile perché inaugura e giustifica legalmente una forma di «tortura democratica», un sistema di vessazioni psico-fisiche, non cruente ma feroci. Non è un caso che proprio così, «Tortura democratica», si intitoli il libro di Turco e D'Elia, cronaca delle visite nelle sezioni speciali del 41 bis in Italia (a partire dalle carceri di Cuneo e Novara). E penso che molti - anche quelli che ritengono che il 41 bis sia una misura illiberale ma necessaria per battere la mafia - potrebbero essere interessati al contenuto istruttivo e raccapricciante di questi «appunti di viaggio».

Bruno Mellano

Data: 
Sabato, 1 February, 2003
Autore: 
Fonte: 
LA STAMPA - Cuneo
Stampa e regime: 
Condividi/salva