Nell'anniversario della morte cerebrale, la moglie Gabriella tiene vivo il ricordo delle sue lotte
La riflessione contro l'accanimento terapeutico
«Non rassegniamoci ad essere vittime di un sistema disumano Occorre una risposta responsabile da parte delle istituzioni Lo Stato deve essere veramente laico e rispettare le fedi religiose di ciascuno»
di Aldo Comello
Emilio Vesce muore l'11 maggio del 2001, la morte lo libera dal calvario di 6 mesi di coma. Pesa 30 chili, il cervello distrutto dall'anossia non riceve più, un groviglio di fili fa battere il cuore, una macchina lo fa respirare, nessuna sensazione, nessuna percezione, gli occhi «gelati», disseccati, devono essere bagnati con lacrime artificiali, le mascelle si inchiodano in spasimi violenti. Per chi lo ama è uno stillicidio di dolore quotidiano che raschia via dalla memoria i ricordi più belli, che saccheggia i sentimenti, che umilia.
«Il mio Emilio - dice la moglie Gabriella Vesce che gli ha tenuto la mano per tutta la vita - era bello come il sole, intelligente, affascinante, sapeva ridere e combattere».
Al funerale parlano gli amici, interventi che toccano il cuore perché la vita di Emilio è stata una lotta infinita. Giovanissimo, in una Napoli affamata, massacrata dalla corruzione, si è battuto contro la miseria, quella materiale e quella dell'ignoranza, poi contro l'iniquità, contro i poteri forti dello Stato. Ha scontato 5 anni, 5 mesi e 5 giorni di carcere duro, Emilio, prima di essere dichiarato innocente, compresi tre anni di carcere speciale, l'attuale 41 bis, e circa sei mesi di soggiorno obbligato a Pontedera. Al funerale parla anche Marco Pannella: è commosso, la voce, forte e profonda, ogni tanto si incrina: «Se ne è andato, liberandosi da una segregazione a cui era stato condannato per la seconda volta. Segregazione terapeutica. Emilio per sei mesi è restato chiuso in quel letto numero 12 della rianimazione. Condannato lui, la famiglia, gli amici. Ora è libero. "Statte bbono, Emì, sta bene, ciao"».
Ieri la moglie, Gabriella Vesce ha scritto e divulgato un articolo-lettera aperta nel secondo anniversario della morte cerebrale di Emilio. «Voglio ricordare e far ricordare - dice Gabriella - per continuare le sue battaglie per i diritti umani e la libertà».
L'8 novembre del 2000 Emilio Vesce è colpito da infarto del miocardio con conseguente anossia cerebrale. Stato Vegetativo Permanente è la diagnosi dei medici. «I miei figli ed io - dice Gabriella - siamo stati catapultati in una specie di incubo kafkiano che, per alcuni versi, ricorda la vicenda del 7 aprile 1979: accanimento giudiziario, difesa impossibile, mandati di cattura a grappolo, carcerazione preventiva senza fine, pestaggi, traduzioni in tutte le carceri d'Italia come globe trotters della reclusione. Anche qui distruzione dell'identità, della dignità dei diritti degli imputati, mostri sbattuti in prima pagina». «Ricordo - dice Gabriella - pochi giorni dopo l'arresto, il telegramma di congratulazioni dell'allora presidente Pertini al dottor Pietro Calogero per "aver decapitato la direzione strategica delle Brigare Rosse".
Ricordo Mariuccia Ferrari Bravo ed io in attesa di colloquio a Rebibbia dalle 8 del mattino alle 20, "sequestrate" in una squallida sala d'aspetto, invischiate in misteriose ragnatele burocratiche»
«Ma l'8 novembre di due anni fa - racconta Gabriella - siamo precipitati, i miei figli Auri e Emiliano ed io in un abisso ben più terrificante del 7 aprile 1979». Dagli appunti per un intervento di Emiliano (giugno 2001): «Gli ultimi sette mesi della mia vita hanno visto il coincidere di più aspetti: una triste vicenda personale, la morte differita di mio padre e un'entrata in politica come candidato della Lista Bonino e come portavoce del dramma che la mia famiglia stava vivendo». «Il partito radicale funzionò come un pronto intervento per i diritti lesi. Insieme abbiamo messo in parole una massa informe di rabbia, brutalità, impossibilità di fare e pensare ciò che si ritiene giusto, abbiamo costruito una battaglia, il nostro dramma privato è esploso, le nostre conoscenze, i nostri pensieri sono diventati patrimonio comune».
«Lo strumento per raggiungere l'obiettivo - continua Emiliano - è il corpo di mio padre, un corpo senz'anima e quotidianamente violato, unito nel dramma a quello mio, di mio fratello, di mia madre, strumento di conoscenza e fattore di un possibile miglioramento del reale attraverso il quale la vita e la morte possano essere ripensate individualmente prima, collettivamente poi; lo strumento attraverso il quale venga data ad ognuno la possibilità di decidere di se stesso e della propria vita. Uno strumento di libertà, alla fine, ma che svuota, che rende vane le fatiche e le sofferenze, che banalizza un desiderio di cambiamento e, decretando la tua impotenza di fronte alla sofferenza, denobilita i tuoi sforzi».
«Completamente assorbita - continua Gabriella - dalla gestione di questa abnorme, folle situazione, un grande aiuto mi è venuto dai figli. Auri, come un guerriero al mio fianco, nel difendere la dignità e gli ideali del padre, nel proteggermi da tante incredibii umiliazioni, incomprensioni, attacchi venutici da istituzioni e persone che avrebbero dovuto aiutarci. Grazie ai miei figli, ai radicali, a Exit Italia a tanti amici, posso condurre una battaglia peché non ci si rassegni ad essere vittime di un sistema disumano. Occorre una risposta responsabile da parte istituzionale, occorre prendersi la responsabilità di una scelta dolorosa (non accanimento nel rispetto di Emilio, della sua vita, delle sue volontà, delle sue battaglie), essere e lottare per uno Stato veramente laico, per il rispetto delle fedi religiose di ciascuno.
Per i cattolici vorrei citare il Papa. Nell'Enciclica Evangelium Vitae afferma: "Quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita... La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte».