di Massimo Lensi
Il Governo vietnamita va all'attacco
Con indispettita veemenza, in queste settimane il Governo vietnamita sta protestando in tutte le sedi possibili per contrastare le iniziative a sostegno delle popolazioni dei Montagnards, intraprese con decisione, da numerose associazioni ed Organizzazioni non Governative, tra cui il Partito Radicale Transnazionale. E' stato sufficiente in aprile l'intervento del rappresentante Degar, Kok Ksor, alla Commissione Diritti Umani Onu a far scattare la rappresaglia vietnamita, la quale, presa la palla al balzo ha accusato Ksor di far parte della Cia e di fomentare così il terrorismo in territorio vietnamita. Ma anche questo è il Viet Nam! Il Paese più importante del Sud Est asiatico. A questo punto però ci si potrebbe chiedere: chi sono i Montagnards? Quanti e quali misteri si celano dietro questa parola con cui i francesi chiamarono negli anni '50 i popoli delle montagne? Quali misfatti hanno compiuto i Hmong, i Degar, i Sedang, per essere puniti (e colonizzati) dal Governo vietnamita? E perché rischiano di scomparire dalla faccia della terra? La strana storia potrebbe apparire incomprensibile a chi osserva il Viet Nam, e in generale, per altre faccende, lo stato dei regimi nazional-comunisti in Asia, senza approfondire il passato ed il presente di queste popolazioni montanare.
Uccidere i Vietcong
Un anno fa visitai alcuni villaggi in territorio vietnamita abitati dalle etnie tribali. Un viaggio dal nord verso il sud, da Hanoi fino alle foci del Mekong, lungo e difficile, spossante, articolatosi tra malattie e delusioni, fatiche e spostamenti di fortuna. Atterravo all'aeroporto di Hanoi e già mi chiedevo se sarebbe stato possibile scrutare il Viet Nam con lucidità senza indulgere nelle facili tentazioni della retorica sulla sporca guerra. Volevo cercare umilmente di capire ed interpretare nient'altro che il Paese di oggi, con i suoi difetti e pregi. La guerra, le tante guerre del Viet Nam, sono solo un ricordo del passato anche se è vero che limitare il concetto di vittime di guerra ai soli morti e feriti non esaurisce l'elenco delle perdite subite da una società. Distruzione della cultura, strascichi nella coscienza di un intero popolo, vendette. E questo per generazioni e generazioni, per anni ed anni. Dovevo farmi forza per non pensare a quello che fu un terribile dramma mondiale, epocale e generazionale, e pur non appartenendo per età alla generazione della contestazione il ricordo delle canzoni dei Jefferson Airplane e dei Doors mi martellava in testa. Nel febbraio 1999 un famoso quotidiano pubblicò una lettera aperta del leader radicale Marco Pannella sull'argomento. E Pannella a proposito della sporca guerra - ma quale guerra non è sporca? - così scrisse "Anche per questo, da nonviolento gandhiano e da radicale, sono di nuovo tanto di nuovo grato all'America quanto nemico dei pacifisti a senso unico. "Uccidere i vietcong" era sì "uccidere", ma niente affatto l'"uccidere i "buoni", da parte dei "cattivi". La storia ha ormai indiscutibilmente mostrato e dimostrato che "i vietcong" e i loro eredi hanno rappresentato e rappresentano nemici feroci e vittoriosi della libertà, del diritto, della vita civile del proprio popolo, da loro condannato ad essere "indipendente" solamente dalla civiltà democratica e pacifera nel mondo".
Indipendenza - Libertà - Felicità
Il mio volo notturno da Bangkok planò direttamente nel socialismo reale versione "cortina di bambù", una Bulgaria anni '70 con gli occhi a mandorla: le pratiche di frontiera durarono due ore. Il Viet Nam di oggi ha però ben altri problemi sociali e sfide economiche da affrontare: povertà, scarsa attenzione igienica, acque sorgive non potabili, mancanza di infrastrutture, strade, ospedali e scuole . Il prodotto interno pro capite di 350 dollari all'anno e l'indice di sviluppo umano (0,671) colloca questo Paese 108.mo posto della classifica mondiale. La Repubblica Socialista del Viet Nam è un regime a partito unico, di ispirazione marxista-leninista, tra i più chiusi alle istanze democratiche e feroce come non pochi con chi si oppone al "Doi Moi", il nuovo corso economico di apertura al libero mercato, al liberismo embrionale, senza però libertà politiche, voluto nel 1986 da Nguyen Van Linh, allora segretario del Partito Comunista. Un "nuovo corso" che prende come modello il Viet Nam del Sud prima delle riunificazione, e che si basa proprio sulla esperienza capitalistica sudista, necessaria per fornire al Paese di oggi quelle capacità imprenditoriali ancora molto latitanti. Non manca chi, tra gli osservatori, maliziosamente nota che alla fine è stato il Sud a vincere la guerra! Le notizie che giungono in occidente parlano però di carceri piene di prigionieri politici, di esponenti religiosi costretti al silenzio, di popolazioni tribali "vietnamizzate", di tanta povertà. Sul timbro di ingresso stampigliato sul mio passaporto vi era riportata una frase, "Doc Lap - Tu Do - Hanh Phuc", lo slogan nazionale: Indipendenza - Libertà - Felicità. Nella mia guida invece si annotava a proposito una simpatica spiegazione: "alcuni vietnamiti cui evidentemente non manca il coraggio affermano che in realtà i trattini tra le parole rappresentano altrettanti segni di ... sottrazione!" Di solito consideriamo come verità quella della cui autenticità siamo convinti, non quella più vicina alla realtà.
Hanoi
Hanoi, la piccola capitale di un Paese di 79 milioni di abitanti, si rilevò ai miei occhi come una città tutto sommato tranquilla e armonica, rispettosa della sua fama di "Parigi del Sud Est". I numerosi viali alberati e i piccoli laghetti conferivano alla capitale la tipica leggerezza coloniale, tutta viet, incomparabile per mescolanza di stili architettonici con le altre concorrenti città coloniali del sud est: Vientiane e Phnom Penh. Il Quartiere Vecchio era uno spettacolo non stop di colori, suoni e sconnessi odori di spezie, pesce e pasticceria, mentre le migliaia di ciclisti e motociclisti arredati con il tipico cappello a cono, svolgevano con proprietà il ruolo di colonna sonora delle vie piccole, il cuore pulsante, il vitale tesoro commerciale di Hanoi. Ovviamente, i primi giorni li dedicai alle visite obbligate: il deprimente mausoleo di "Zio Ho" (come i vietnamiti chiamano Ho Chi Minh, il padre della patria), la sua mitica casa su palafitta, quello che rimane dell'"Hanoi Hilton", il carcere della guerra, la famosa Pagoda Chua Mot Cot (Pagoda con una Sola Colonna), il bellissimo Tempio della Letteratura e Radio Hanoi, da dove Jane Fonda spronò i militari americani alla diserzione a favore del nord. Tutto era semplicemente perfetto, tirato a lucido. Pagavo il biglietto, anche salato, e a testa alta mi inoltravo nell'emporio della rivoluzione permanente, "rivivendo" i tragici momenti di tante guerre: la liberazione coloniale con la Francia, quella con il sud, poi con gli americani, fino a quelle più recenti con la Cina e con i nemici di sempre, i cambogiani (se un merito storico va riconosciuto paradossalmente al governo vietnamita è proprio quello di aver occupato nel 1979 la Cambogia in mano alle follie maoiste dei Khmeri rossi di Pol Pot). Dopo alcuni giorni scappai da Hanoi.
Massimo Lensi
m.lensi@agora.it
1 - continua)