Quel che la sinistra più moderna vorrebbe ma non può fare
Si sta ripetendo quanto era accaduto due anni fa con il referendum dei Radicali sull'articolo 18: nell'alternativa drastica tra il «sì» e il «no» allo Statuto dei lavoratori (legge del 1970), sembra aver vinto il «no». Si rafforza così la convinzione diffusa che in realtà non occorra oggi alcuna riforma: gli italiani non la vogliono, lo Statuto non si tocca. Le forze politiche di opposizione accantonano i progetti di riforma, che pure in seno ad esse sono stati coltivati, e i dissensi che li hanno accompagnati, per mettere a frutto la cocente sconfitta dell'avversario, allineandosi, grate, alla Cgil di Cofferati che l'ha propiziata. E chi potrebbe dar loro torto?
Quanto al governo, esso si trova ora nell'urgente necessità di decongestionare la propria agenda politica, che lo vede in difficoltà su troppi fronti. Se a essere accantonate saranno per prime le velleità di svolta in materia di politica del lavoro, ciò avverrà innanzitutto perché su questa materia la maggioranza è incerta e divisa almeno quanto lo è stata l'opposizione fino a ieri; ma anche perché la partita è stata impostata male fin dall'inizio. Il governo era partito nell'autunno scorso con il Libro Bianco di Maroni, nel quale di cambiare l'art. 18 dello Statuto non si parlava proprio; subito dopo, quasi a sorpresa, ha inserito le modifiche all'art. 18 nel disegno di legge-delega.
Era partito, per di più, dichiarando, con il Libro Bianco e in varie altre sedi, che occorreva voltare pagina rispetto alla politica della concertazione, per poi bloccarsi appena il movimento sindacale ha mostrato i denti. Agli imprenditori ha presentato l'intervento sull'articolo 18 come una misura che col tempo avrebbe aperto la strada a un progressivo depotenziamento dello Statuto dei lavoratori, mentre ai sindacati lo ha presentato come una misura limitata, marginale e sperimentale. Così, ha dato l'impressione di voler furbescamente «sfogliare il carciofo» dello Statuto dei lavoratori, smantellarlo un pezzetto per volta, senza un disegno di riforma organica della materia; e ha consentito agli oppositori più determinati di ripresentare la questione nei termini in cui era stata presentata dai radicali con il referendum del 2000: una scelta binaria, pro o contro la libertà di licenziare.
Ma questa scelta binaria, senza altre opzioni possibili, non sta nelle cose: è frutto soltanto della radicalizzazione dello scontro. Gli stessi Rutelli e Fassino sono convinti - e non hanno mancato di dirlo apertamente ancora in epoca recente - che non soltanto ragioni di efficienza, ma anche e soprattutto ragioni di equità impongono di porre mano a una riforma di ampio respiro dello Statuto dei lavoratori.
Ora, l'esito della grande battaglia campale perduta dal governo produce un rafforzamento, in entrambi gli schieramenti, dell'idea secondo cui, tutto sommato, il nostro diritto del lavoro va bene così com'è, salvo marginali aggiustamenti: se garantisce agli occupati regolari delle imprese medie e grandi una protezione più rigida rispetto al resto d'Europa, vuol dire che saranno gli altri Paesi a doversi adeguare. Il rischio, ora, è che nessuno più si chieda come possa essere il migliore d'Europa un diritto del lavoro, come il nostro, che produce il mercato del lavoro peggiore: abbiamo la più bassa percentuale di cittadini attivi nel mercato del lavoro, tra questi la percentuale più alta di irregolari o disoccupati; e tra questi ultimi le percentuali più alte di giovani in cerca del primo lavoro e di disoccupati permanenti. Il nostro è il mercato nel quale chi è disoccupato, precario o irregolare ha la più alta probabilità di rimanere tale più a lungo, anche per tutta la vita; un mercato nel quale tutto il peso della flessibilità è sopportato da una metà soltanto della forza-lavoro: quella a cui l'articolo 18 non si applica.
Certo, in questo momento non si può chiedere a Fassino e Rutelli di rinunciare a cantare vittoria insieme a Cofferati; né a Berlusconi e Maroni di dissanguarsi ulteriormente su questo terreno di scontro. Ma, in un campo e nell'altro, è bene che le teste pensanti non desistano dal lavoro di riflessione e di elaborazione, che consentirà domani agli uni e agli altri di formulare nuove proposte, questa volta meno improvvisate, nelle quali da destra si sottolineerà maggiormente il valore dell'efficienza, da sinistra quello dell'equità, ma che dovranno essere mirate entrambe ad affrontare una questione comunque ineludibile.
Pietro Ichino