DA molti giorni ormai cerchiamo di capire la guerra che il terrore ha dichiarato all'Occidente, l'11 settembre 2001. Cerchiamo di ricostruire le motivazioni degli assassini, di risalire alle cause di tanta concentrazione d'odio, di tanta volontà distruttiva.
Ma forse è una trappola mortale, questa trepidante esplorazione di ragioni, motivi. Inavvertitamente, forse, stiamo cercando le parole lì dove la parola è stata bandita, siamo alla ricerca di spiegazioni lì dove nessuna spiegazione è disponibile.
Non è la prima volta che ci si ritrova a corto di interpretazioni di fronte ai crimini contro l'umanità - è già accaduto a Auschwitz, nei Gulag - ma questa volta il male totalitario si presenta sotto nuove vesti. E' un male totalmente sconnesso dal verbo, muto oltre che anonimo, e da questo punto di vista inaugura il secolo così come la Grande Guerra del '14-18 inaugurò il Novecento. Le nuove forze di distruzione non si limitano a essere mondiali e a disconoscere le frontiere, annullando le idee classiche del territorio, dello Stato, delle invasioni. Sono soprattutto prive di qualsiasi discorso: sono senza lògos, senza parola.
La loro energia nichilista non dichiara guerre ma è guerra fine a se stessa, distruzione per la distruzione, paura levatrice di paura. La loro sostanza è fatta di nulla, di vuoto. E' un cratere che si spalanca simultaneamente nel cuore di New York e nelle menti. Tutto era stato pensato, del secolo appena cominciato, tranne questo: che fossimo minacciati dalla morte della parola, ingrediente del nostro esistere ma anche delle strategie consuete del terrore.
Che pensare l'impensabile consistesse nel guardare in faccia un male assoluto che solo in parte si ricollega al passato: un male non solo supremo, non solo teso a strappare ennesimi paradisi privati o collettivi, ma sconnesso dal verbo che tradizionalmente accompagna l'operare umano anche nella sue perversioni. Il 2001 comincia con quest'Odissea nello spazio afono del terrorista che non ha volto né lingua. Che non rivendica e che impaura con la mera epifania del proprio vuoto.
Da molti giorni ci si trova a cospetto dell'impensabile e si cerca di riempire questo vuoto. Si pronunciano torrenti di parole nella duplice illusione di capire e di consolarsi: un delitto accompagnato da rivendicazioni angoscia meno di un'empietà inspiegata. I più avveduti cercano lumi in vecchi film che ritraggono Bin Laden mentre spiega la sua visione dell'Occidente troppo ricco, troppo corrotto. Gli insofferenti si precipitano a completare tale visione con le più varie analisi delle nostre responsabilità: responsabilità nell'immenso divario tra ricchi e poveri, nell'arroganza dell'Occidente, nelle sue guerre, nell'incapacità della Palestina o di Israele di fermare gli orrori, nelle rivolte dei reietti.
Le spiegazioni si accumulano, impazienti. Vorremmo trovare le parole di quel che è accaduto e non ci accorgiamo che in realtà stiamo fornendo parole all'autore dell'atto totalitario. Stiamo redigendo il discorso che egli non fa. Stiamo scrivendo i sottotitoli del film muto che egli ha concepito e di cui resta pur sempre il demiurgo. Stiamo collaborando con le forze del male, giustificandole mentre le capiamo, e facendoci scrivani del terrore concediamo loro la prima vittoria. Non è facile restare diritti davanti al nulla. Convivere con esso e lasciare che il vuoto resti vuoto sarà una delle tappe più ardue degli sforzi, ma non è tappa impossibile: come prima cosa lo sguardo può spostarsi sulle vittime civili, sull'immenso loro dolore, anziché sulle pulsioni più o meno eccitanti dell'omicida.
Il cuore di New York e Washington ridotto a detriti è lo spirito e l'esperienza d'Europa che rinascono in America, e già questo può esser materia di pensiero, di progetto. Così come può esserlo il destino della nazione afghana: percossa da una carestia ignorata, vittima di due guerre scatenate dai sovietici e dai talebani, composta di migliaia di fuggitivi che urge al più presto soccorrere e salvare, se non si vuole che nei campi profughi sorgano altri Bin Laden e altri rancori. Nessuno può dire con chiarezza cosa significhi pensare l'impensabile, in presenza di un terrore senza lògos.
Ma è sufficientemente chiaro quel che non dovrebbe significare. Così come accadde nel '14-18, l'attentato dell'11 settembre non può essere iscritto in un contesto rassicurante, in un cosmo che torna a essere armonico grazie al dialogo indiretto tra la vittima che parla del boia e il boia che in silenzio l'uccide. L'iniziativa del male è partita da potenze nemiche d'ogni dialogo, e a loro spetta l'iniziativa di accordare quel che si è fatto con quel che il fatto voleva dire. Se facciamo lavorare la memoria del '900 troveremo momenti in cui si presentò un dilemma analogo.
Accadde dopo il '45, all'ombra delle camere a gas, e un filosofo, Adorno, prese la parola per dire che «dopo Auschwitz non è possibile scrivere poesie». Che sarebbe stata una barbarie, ricominciare come se niente fosse. Si può invece vivere e operare - il presidente Ciampi ha invitato a «fare il proprio dovere quotidiano» - a condizione di non fornire una cornice razionale al crimine. Quest'ultimo resta assoluto - sciolto da ogni legge, ragionamento - e accanto a questa voragine tocca vivere senza coprirla con spiegazioni e soprattutto senza imbellirla. Rimettere il crimine in un contesto intelligibile, dare un senso e addirittura una bellezza a quel che l'occhio nudo ha visto senza mediazioni: questa è la colpa di cui ci potremmo oggi macchiare. Collaborare con l'avversario, scrivendo al suo posto la magnifica apocalisse che non ha scritto: questa la seduzione da cui conviene guardarsi.
E' il tranello in cui è caduto il musicista Stockhausen: «L'attentato è in assoluto la più grande opera d'arte. Ecco un gruppo di individui che si concentra sulla recita, e poi 5000 persone che d'un colpo vengono sospinte nella Resurrezione: al confronto noi compositori non siamo nulla». Questa è la riva fatale cui può condurre il tentativo di riempire il vuoto con frasi che s'ingegnano a capire, identificando abusivamente terroristi, religioni, poveri del mondo. Come si è visto, breve è il passo che conduce dall'invidia di Stockhausen all'estetica del crimine. Adorno non aveva ragione, quando definì barbarico l'umile ricominciamento della storia, dell'arte.
Gli rispose indirettamente Paul Celan, con la grandezza della sua opera e la reinvenzione della lingua poetica. Si può rispondere al male, replicò Celan, a condizione che la parola sia ferita dalla realtà e cercatrice della realtà. E' l'unico modo di restare padroni di se stessi, di riprendere l'iniziativa nella battaglia infinita che sta iniziando, e di non sottostare alla muta legge del terrore.