1) Il rifiuto del positivismo Nel maggio del 1967, in una sala periferica di Bologna concessa da una qualche organizzazione democratica o sindacale cittadina, si apriva il III Congresso del Partito Radicale. La numerazione, a sottolineare la continuità ideale con i programmi e le battaglie promosse dal partito dei Pannunzio, dei Carandini, dei Rossi, dei Villabruna e Cattani, faceva seguito a quella dei suoi precedenti congressi, quello del 1958 e quello del 1961. Ma era il primo della gestione pannelliana e dei suoi amici, che avevano osato risollevare e brandire il berretto frigio della Marianna disegnato da Maccari, abbandonato nella polvere dall'incredulità e dalla sfiducia dalle precedenti sue classi dirigenti. Un paio di ore prima dell'inizio dei lavori, in un modesto albergo non lontano dalla sala, Angiolo Bandinelli e Marco Pannella, nelle rispettive stanze, si stavano preparando all'appuntamento. Marco bussò ad Angiolo che era, anche lui, pronto ad uscire. C'era nell'aria un po' di emozione, ovviamente, e Angiolo disse a Marco, chiudendosi alle spalle la porta della stanza: "Beh, adesso vamos a ver matar al toro". Lo spagnolo era, probabilmente, sgangherato, il senso però era chiaro. Pannella gli rispose: "E che diavolo, niente pessimismo", o qualcosa di simile. Partecipò al congresso una ottantina di trentenni, quasi tutti reduci del primo partito ma già caricati dal lungo e ormai consolidato successo della campagna divorzista e della Lega Italiana per il Divorzio, oltreché dalle altre efficaci iniziative e manifestazioni politiche svoltesi a Roma ma anche in altre città. Il dibattito però si manifestò incerto, nessuno poteva prevedere quale potesse essere la mozione finale, il documento al quale, secondo il nuovo statuto, gli iscritti sarebbero stati politicamente legati per l'anno successivo. Tra i delegati, alcuni venivano da Milano, esponenti di un gruppo che poteva vantarsi di essere il secondo per consistenza, dopo quello romano. Spiccava tra di loro Carlo Oliva, un insegnante liceale assai colto, intelligente, un po' disincantato e forse fragile. I milanesi erano stati molto attenti al dibattito politico montante nella società civile, un dibattito che di lì a poco sarebbe sfociato nel movimento sessantottino. Fecero discorsi consonanti, infarciti di sinistrismo ideologico. La sera del penultimo giorno, Pannella convocò qualcuno dei più autorevoli congressisti, tra cui Gianfranco Spadaccia e, appunto, Carlo Oliva. Era sceso dalla stanza dell'albergo con in mano un foglietto su cui aveva battuto a macchina una quindicina di righe, corrette e ricorrette. Disse ai convocati, che lo aspettavano: "Ho provato a buttare giù una possibile mozione. Non mi sono venute che queste poche righe. Vedete voi di andare avanti. Si può lavorare tutta la notte, basta che il documento sia pronto per domani, alla riapertura dei lavori". Il gruppetto si chiuse in una stanza con un tavolo, poche sedie e una specie di divano, e si mise al lavoro. Discussero e ridiscussero, provarono a buttar giù qualcosa di adeguato, ma non procedevano di un passo. Per riconfortarsi, Oliva aveva portato con sé una bottiglia di whisky cui attingeva di quando in quando, generosamente. Le ore scorrevano, qualcuno si appisolò sullo scomodo divano, il whisky calava nella bottiglia. Oliva provava a balbettare qualcosa ma Spadaccia, ad ogni proposta, idea, suggerimento, sollevava dubbi di ogni genere. Senza puntiglio, ma implacabilmente. Spuntò l'alba, arrivò il giorno, sulla macchina da scrivere c'erano solo le dieci righe buttate giù da Pannella, con le loro intatte cancellature e riscritture. Quando giunse l'ora dell'inizio dei lavori congressuali, Oliva era rotolato lui sul divano, ma la mozione non era progredita di un millimetro. Al voto giunsero le dieci righe pannelliane, che superarono ampiamente il voto congressuale. Fu quello il primo documento ufficiale del nuovo radicalismo. Esattamente quello che Pannella desiderava e aveva ottenuto, grazie ad una abile, un po' cinica regia, e avendo come protagonista ed esecutore Gianfranco Spadaccia. La mozione invitava "tutti i cittadini democratici a sostenere nel paese la politica di superamento del nazionalismo, l'anticlericalismo, l'antimilitarismo, la lotta per i diritti civili?fondamentali e concreti strumenti per una effettiva trasformazione della società e dello Stato"? Solo perseguendo questi obiettivi, continuava il documento, "sarà possibile favorire l'unità e il rinnovamento dell'intera sinistra italiana?" Si affacciavano nel dibattito politico e civile due termini assolutamente inediti, il federalismo e i diritti civili; ma anche, del tutto inaspettati, vi riprendevano posto due altri termini inconsueti, antimilitarismo e anticlericalismo. Suonavano inconsueti perché divenuti, da almeno mezzo secolo, desueti. Ed erano desueti, sogghignava Pannella, perché "vieti", vietati, cassati dall'agenda e dall'attualità per congiunta volontà di destre e di sinistre. Avrebbero, da allora, fatto strada. Dal nuovo antimilitarismo sarebbero nate le battaglie per l'obiezione di coscienza e per il disarmo unilaterale, in un confronto difficilissimo col pacifismo di osservanza khrusceviana allora (ma non solo allora) in auge a sinistra. Il nuovo anticlericalismo avrebbe impostato quelle contro il Concordato, per il divorzio, e più tardi per l'aborto. Imprese enormi e quasi impensabili, dato il clima del paese. Ma di schietto, antico, forte sapore liberale. I radicali pannelliani l'anticlericalismo lo avevano voluto fortissimamente fin da quando, come sparuta minoranza, avevano presentato al secondo congresso del partito una mozione seccamente divorzista. La mozione era stata respinta, la dirigenza, che pure usciva dalle colonne del "Mondo", non credeva fosse né utile né possibile una battaglia su un tema avversato dal mondo cattolico ma anche schivato dalle sinistre, fin dagli inizi del secolo. Non che i lettori e scrittori del settimanale di Pannunzio fossero teneri verso il papa e il cattolicesimo. Cavourriani integrali, erano rigorosissimi nell'interpretare la cultura laica nella accezione latamente europea, con un continuo e devoto richiamo all'insegnamento crociano. Per la maggior parte, più che altro, erano laicisti, gente di mondo che non andava in chiesa, professava un disinvolto e fatuo scetticismo se non addirittura teneva a dichiararsi atea. Erano, insomma, dei borghesi tipici. Il che equivale a dire che, politicamente, non avrebbero mai fatto professione di anticlericalismo, un termine che ai loro occhi evocava un mostro ancora più detestabile della Chiesa cattolica, l'odiato positivismo ottocentesco, così eccessivo, grottesco, popolaresco, scurrile e dunque impresentabile, contro la cui pedestre filosofia don Benedetto, guida spirituale di Pannunzio o di Carandini, aveva condotto battaglie memorabili. L'unico che potesse e tenesse a definirsi anticlericale, anticlericale positivista, per nulla crociano, era Ernesto Rossi, il quale anzi alla problematica antivaticana, anticuriale, antireligiosa, e dunque anticlericale veniva dedicando sul "Mondo" pagine di eccezionale verve e forza, dando vita ad un giornalismo e saggismo degni di restare (se capito e difeso da critici meno perbenisti ed "emunctae naris" di quelli che andavano per la maggiore) nelle antologie della letteratura italiana accanto a quelle di un Galileo o di un Baretti (per dire), quali esempi di scrittura scientifica (e, insieme, satirica) di altissima qualità. Ma Ernesto, "poverino, è tanto bravo ma di politica non capisce nulla", si sussurrava con qualche compatimento nelle belle sale al terzo piano di Piazza Montecitorio, dove regina era la signorina Nina Ruffini. Ora, grazie a Pannella e a un po' di whisky, l'anticlericalismo tornava alla ribalta della politica. Sconfiggeva le tentazioni marxiste e marxiane, l'economicismo e quante altre suggestioni erano penetrate anche tra le fila radicali dalla cultura di sinistra circostante, che all'anticlericalismo militante preferiva la complicata ma irrisolubile tematica del "dialogo con i cattolici", intessuta dai Lombardo-Radice, gli Ingrao, i Rodano. Era, sì, anticlericalismo ma, diciamolo subito, non quello nobilissimamente professato da Ernesto Rossi. Non lo era, almeno quanto Pannella non era positivista. Nel nostro ricordo, non ci pare proprio che Pannella abbia mai pronunciato, o declinato in qualche modo o sotto un qualche pretesto quel grido, "Ecrasez l'infame" che era alla base della Kulturkampf bismarckiana o del laicismo borghese francese, quello di cui Flaubert, scrutando tra le pieghe della redingote dei suoi esponenti, ha lasciato la caricatura immortale nelle figure di Bouvard e Pecuchet, o di Monsieur Homais. Nessuno se ne accorse allora - né poteva essere altrimenti - ma il piccolo episodio bolognese accendeva la scintilla di un vero, grosso, episodio di revisionismo storico. Certo, rovesciava vecchi dogmi e convinzioni radicate, tutte rintracciabili nella sicumera laicista del "Mondo" e vicinanze; magari, i suoi seguaci ospitavano nelle loro sedi qualche sopravvissuto circolo "Giordano Bruno", frequentato da illusi che il settimanale satirico "Don Basilio" potesse riesumare quell'evento giornalistico eccezionale che era stato "L'Asino" di Podrecca e Galantara. Di tutto quel ciarpame, morto di consunzione e di solitudine, anche con la complicità del togliattismo che aveva decretato l'inserimento del Concordato nella Costituzione repubblicana e antifascista, Pannella restituiva alla luce il bric-à-brac dandogli qualche dignità, circondandolo della sua "pietas" storica. Ma prendendone rispettosamente le distanze. L'anticlericalismo pannelliano non aveva nulla del "Don Basilio". Si era abbeverato da altre fonti, tra le quali le leggende metropolitane privilegiavano quelle francesi, e in special modo il pensiero diffuso dalla rivista "Esprit". Per la verità, qualcuno, nelle stanze del "Mondo" e anche nelle sedi universitarie o liberali bazzicate dal giovanissimo Marco, aveva avuto il sospetto che l'allampanato, appassionato lettore del "Risorgimento Liberale" di Pannunzio avesse qualche nascosta simpatia per il cattolicesimo, magari anche un po' destrorso. Negli suoi interventi politici, su certe questioni non era mai molto chiaro o meglio, per quegli ascoltatori, comprensibile. Molti lo consideravano un ragazzo generoso ma un po' confuso e confusionario, insomma poco affidabile: che maturasse, poi si vedrà. Ma quando la campagna divorzista cominciò a dipanarsi, quando decollò davvero, il senso di quell'anticlericalismo anomalo si fece più terso, almeno per chi vi ponesse un po' di attenzione e di seria riflessione (il che non successe nemmeno, totalmente, nelle file dei neoradicali). Era, quello, l'anticlericalismo di un credente, non di un razionalista, o tanto meno di un positivista come in realtà erano, stringi stringi, i crociani del "Mondo", che di dialettica dello spirito non masticavano proprio nulla. Dalle bordate divorziste di Pannella fiorivano espressioni un po' strane. Cosa è il partito radicale? "Un partito di credenti e non credenti". Il Comitato antidivorzista degli intransigenti, i Gabrio Lombardi, i Cotta e compagnia? Un movimento di credenti autentici, credenti nella fede e non nel potere mondano della DC, per capirci. Parole incomprensibili per i laicisti che negli stessi tempi, per loro conto, stavano tessendo alleanze con la affidabilissima, democraticissima DC, baluardo unico contro le prepotenze integraliste delle frange estreme del mondo clericale. Eppoi, Pannella apriva a protestanti, atei, miscredenti, profughi ed eretici di ogni genere le porte di un dibattito che cominciò a fluire verso lidi insospettati: fogli e periodoci protestanti come "La Luce", organo della Chiesa Valdese e, sulla sponda opposta, "Questitalia", una stupenda rivista diretta da Wladimiro Dorigo e nutrita da cattolici coraggiosamente protesi verso confronti spirituali e democratici con il mondo dei liberi e dei liberali, arrivando a dedicare un numero alla denuncia del Concordato oppure ospitando pagine intere di un Notiziario tratto dalla "Agenzia radicale". L'anticlericalismo pannelliano poneva il problema della religiosità non come fenomeno residuale, prodotto dell'incultura delle masse popolari, dell'ignoranza delle plebi affascinate dai miracoli di San Gennaro, magari nobilitato dalla gentiliana definizione di filosofia inferiore, buona per le anime semplici e i bimbi delle elementari. Nemmeno si volgeva prioritariamente, come accadeva nelle coltissime, eccezionali pagine del "Mondo" pannunziano, a rivendicare meriti e problematiche del cattolicesimo italiano nella sua lunga e travagliata vita, pagine che Spadolini nutriva di uno spirito sottile, politicamente mirato ad ottenere un "Tevere più largo", vale a dire una riedizione più attenta, meno pericolosa, del gentilonismo di inizio secolo, ancora una volta in funzione di contenimento delle spinte di una sinistra eversiva come era, o si temeva fosse, quella comunista. Se si guarda a certe vicende che maturavano sulle sponde della sinistra o in quelle dei moderati, ci si accorge che il mondo cattolico era l'oggetto neppure segreto del desiderio, tutto politicamente giustificato, di quei due schieramenti contrapposti. Nessuno dei due, in realtà, avrebbe guadagnato alcunché dalla sospirata alleanza, o "mésalliance". Né le sinistre, giunte al massimo del loro successo in questo campo con il fallimentare decennio di unità nazionale berlingueriana, né il mondo moderato, con i suoi partiti più idealmente rappresentativi, il repubblicano lamalfiano e il liberale malagodiano, ridotti via via al ruolo di succubi del partito cattolico, abilissimo nel giocare su tutti i fronti e su tutti i tavoli pur di mantenere una sostanziale egemonia sul paese. L'iniziativa pannelliana sconvolgeva questo quadro, le sue linee portanti. Pannella fu come il Gian Burrasca che manda a monte il matrimonio segretamente celebrato in chiesa dal deputato socialista ufficialmente, e in pubblico, legato alle pregiudiziali laiciste del tempo, Il leader neoradicale faceva appello alla fede dei tutti, delle donne e dei preti, della gente di fede insomma, esortandoli perché mettessero in discussione se stessi, e dunque la Chiesa; perché si proiettassero alla ricerca di verità interiori più alte, più rigorose di quelle comandate dal catechismo o dal parroco. Faceva appello alla dignità interiore del singolo, del "cittadino", perché portasse la contraddizione dell'essere insieme, appunto, cittadino e credente, al fuoco rovente di un dubbio da cui solo potesse scaturire una verità più alta, drammatica ma storicamente più spessa e "contemporanea". C'era forse, nel messaggio pannelliano, anche un bel po' di astuzia "politicante": certo Pannella voleva evitare che la campana divorzista venisse denunciata come il rintocco di un rinato anticlericalismo volgare e plebeo, alla "Don Basilio" appunto. Ma la scelta, qualunque fossero le motivazioni, era estremamente raffinata, e tale da mettere a disagio l'interlocutore e l'avversario. Pannella si rivolgeva alla laicità del credente, non al laicismo del miscredente o dell'ateo, del benpensante borghese. Quella laicità era rifiuto del laicismo, nei suoi dogmi e nelle sue ipocrisie. Era, e questo scandalizzò il benpensantismo, in primo luogo quello laicista, una laicità pungente, provocante e provocatoria quanto invece il laicismo è prudente e calcolatore, quando non cinicamente indifferente: perché, sempre, la laicità è aggressiva e persino violenta, come può essere violenta la nonviolenza, nello sforzo che l'una e l'altra fanno per rimettere continuamente in discussione se stesse e la loro prassi. Se non lo fossero, si rinchiuderebbero nel guscio della loro presunzione (un po' come accadde a quei settori antimilitaristi che, una volta conquistata l'obiezione di coscienza, si diedero alla gestione dei benefici lucrati, facendo morire la conquista nella palude del più piatto burocratismo). Pannella, quei radicali, esercitavano la laicità non elaborando trattati variamente teorici, ma parlando e dibattendo nelle piazze, nel contatto con la gente, le popolane e gli "incolti", Era la "agorà", la tecnica e teoria del "narrare", l'oralità, opposte al teorizzare e alla scrittura colta dei pochi per pochi. Era la capacità di convincere contrapposta all'abilità del congegno dialettico-sillogistico. Era il collaudo della fiducia (e magari della fede) conquistata nel dibattito, contro il documento. Era, detto esplicitamente, una laicità liberatrice, delle masse e dei singoli: un fenomeno, letto sotto altra luce, del tutto religioso. Non aveva avuto bisogno di richiamarsi alla "religione della libertà" cantata da Croce: ma per un solo motivo, e cioè che la "religione della libertà" significava in realtà la rinuncia alla lotta politica, mentre l'impegno dei nuovi radicali innalzava orgogliosamente il suo nuovo motto: "politica è cultura, o non è". Vogliamo rovesciarlo, per un istante? Suona così: "Cultura è politica". Ecco perché (come cercheremo di chiarire successivamente) il suo primo obiettivo era, ed ancora oggi è, l'abrogazione del Concordato. 2) Perché il "no" al Concordato "Il V congresso del Partito radicale, riunito a Ravenna i giorni 2-3-4 novembre, impegna gli organi esecutivi del partito ad iniziare, il primo giorno dopo l'entrata in vigore della legge istitutiva del referendum, una campagna nazionale per il referendum abrogativo del Concordato tra Stato e Chiesa". Siamo nel 1968, un anno dopo quel Congresso bolognese che aveva recuperato dalle ceneri dell'oblìo e dei divieti il "vieto" anticlericalismo. Il 1968 è "l'annus terribilis" dell'esplosione studentesca, e a Ravenna arrivano tutti gli echi e i contraccolpi di quegli sconvolgimenti culturali, sociali e politici. La mozione che viene approvata dalla ottantina di radicali riuniti in una saletta fredda e spoglia è impacciata, contorta, troppo carica di cose, di obiettivi, di interlocutori e avversari. E' ambiziosa e insieme fuori misura. Ha fremiti anticapitalistici, in nome dell'antimilitarismo mette assieme in un unico fascio avvenimenti complessi e anche lontani tra loro ("guerra nel Vietnam, consolidamento del regime dei colonnelli in Grecia, appello all'esercito di De Gaulle durante il maggio francese, intervento dell'esercito in funzione repressiva in molte città americane, invasione della Cecoslovacchia, sviluppi in Italia della vicenda Sifar"), cerca di dare un senso e un volto al movimento e alle sue ebollizioni ("le manifestazioni?della contestazione?si sono in primo luogo rivolte contro l'equilibrio immobilistico accettato dalla sinistra italiana, quella di governo non meno di quella di opposizione"?). Non vi si sente neanche un'eco - purtroppo - dell'abissale differenza che correva tra i movimenti dell'"altra America" - libertari e umanistici, flessibili nelle loro richieste anticonsumistiche ma fermissimi nella rivendicazione dei diritti civili - e il movimento studentesco europeo e italiano, inquinato dal rigurgito di un ideologismo nemmeno più sartriano (ah, quell'"engagement!") o magari camusiano, ma dichiaratamente leninista e marxista, idolatra del Marx giovane appena riscoperto, quasi un Guy Debord d'annata. Eppure, all'"altra America" e al movimento per i diritti civili i radicali erano collegati dai primi anni sessanta. Nel 1962, un gruppettino di militanti - pur se del tutto ignaro della lingua inglese, c'era anche Pannella, gli fece da diligente interprete la maestrina Ida Sacchetti - aveva affrontato un viaggio in treno quasi bestiale, senza cuccette, in un inverno gelido e nevoso come non mai e, naturalmente, a proprie spese (solo momento indimenticabile, la traversata della Manica, con le centinaia di gabbiani che seguono gracchiando il traghetto, planando ad ali immote e quasi legati ad un invisibile filo ad arraffare al volo i pezzetti di pane lanciati in aria) per partecipare ad Oxford a quel convegno internazionale di nonviolenti e pacifisti da cui presero vigore anche i militanti americani per i diritti civili, i "figli dei fiori". Le pagine di "Agenzia Radicale" venivano quotidianamente riempite con le informazioni dei "leaflets" spediti dai vari movimenti e associazioni. Della loro vivacità libertaria, solo questo veniva travasato in Europa. I sessantottini avevano trovato ospitalità nelle stanze di Via XXIV Maggio, le riempivano di fumo nelle interminabili sedute di lavoro ma la puzza sotto il naso l'avevano davanti a quei piccoloborghesi divorzisti ("gratta gratta il radicale, spunta fuori il capitale", recitava uno sprezzante slogan coniato in casa PCI). Ne approfittavano, e basta. Dunque, a Ravenna, i linguaggi si confondevano, il Congresso si sforzò di non perdere contatto con il convoglio in corsa. Forse perché impigliato in queste difficoltà, era stato un Congresso un po' grigio e smorto, con una sola nota curiosa da ricordare: il MSI inviò a portare il (non) consueto saluto un suo dirigente: i congressisti però ci rimasero parecchio male, trovandosi davanti a una figura non di primo piano, addirittura un giovane, sia pure il segretario nazionale della gioventù missina. Si chiamava Gianfranco Fini. Ma, nella parte del dispositivo, quella sghemba mozione si raddrizza. Perentoriamente, indica agli organi statutari e agli iscritti, come abbiamo visto, un solo obiettivo: avviare la campagna per il referendum abrogativo del Concordato. Nessuno sconto all'attualità. Nell'aria, già volteggiava sinistro lo spettro della revisione, avviato dal successo montante del divorzio e incalzato dalle iniziative radicali. L'11 febbraio del 1967, la capientissima sala dell'Adriano, a Roma, era stata riempita con un indovinato "mailing" ante litteram, e la manifestazione si svolse in un clima di entusiasmo, seppur dolorosamente velato dall'improvvisa scomparsa di Ernesto Rossi, che avrebbe dovuto presiederla; il successivo 20 settembre venne rievocato con una manifestazione di piazza davanti alla fatidica breccia, qualcosa di inaudito, di straordinario, di inconcepibile, di scandaloso, in quell'Italietta clericale; grazie a uno sforzo finanziario eccezionale dei militanti, era stato stampato in decine di migliaia di copie un giornale che, anche nel formato in rotocalco, faceva concorrenza all'"Espresso", "1967, Anno Anticlericale" (una sua copia, messa oggi all'asta, alzerebbe un bel mucchio di soldi). Fermenti di rivolta, o comunque di inquietudine, cominciavano a ribollire all'interno della Chiesa, ad opera di un neonato ed inedito "dissenso cattolico" (contemporaneamente al congresso radicale di Ravenna, a Rimini si era svolta una forte assemblea di questi preti e laici non più disposti all'obbedienza gerarchica o dogmatica). Dietro le quinte, esperti e diplomatici cominciarono dunque a lavorare, le bozze presero a traghettare dall'una all'altra sponda del Tevere. Nel 1971 nasceva la Liac, Lega Italiana per la abrogazione del Concordato. Venne alla luce a Milano, il 14 febbraio, lanciata da un nutrito programma di convegni anticoncordatari organizzati da repubblicani, liberali, comunità ecclesiali e dalla vecchia e benemerita Associazione per la Libertà Religiosa in Italia. Quello socialista viene revocato all'ultimo momento. Le varie iniziative confluirono in una assemblea unitaria, da cui fiorì la nuova associazione. Nella presidenza c'erano Baslini, Ferrarotti, Galante Garrone, Scalfari, Mellini, Piccardi e Buzzati Traverso, a testimoniarci che in quei tempi difficili c'erano pure (a differenza di oggi, lo vogliamo sottolineare) repubblicani, liberali e magari socialisti - anche deputati e parlamentari - che si arrischiavano su un progetto sicuramente non gradito alle rispettive dirigenze, legate ai patti di governo contratti con la DC. Dietro le quinte, Pannella tramava infaticabile: poche settimane dopo, i parlamentari aderenti - indipendenti di sinistra, socialisti e liberali - presentarono una mozione perché il Parlamento venisse informato dei passi del governo nelle trattative con la Santa Sede. Nel giugno, assieme alla Lega per il Divorzio e al Partito radicale, la Liac promuoveva iniziative anticoncordatarie a Roma, a Firenze (in appoggio alla Comunità ecclesiale dell'Isolotto) e a Siena, dove la magistratura aveva sospeso le cause di divorzio in attesa della sentenza della Corte Costituzionale? Tutto un fermentare, un brulicare di ribaltoni ideali e politici certamente preoccupanti per gli ambienti d'Oltretevere dove, in questi anni o poco dopo, alcuni cardinaloni cominciavano a domandarsi, seriamente inquieti, se quel Pannella non fosse una reincarnazione del diavolo. Certo, diavolo o no, l'evocazione paciosamente spadoliniana al "Tevere più largo" sembrava destinata al cestino. E arrivarono le inevitabili contromosse. Nel 1972, per evitare il referendum sul divorzio, il Parlamento veniva sciolto e si andò ad elezioni anticipate che furono, per il movimento anticoncordatario, disastrose. Si trovarono liquidati dalla scena parlamentare quanti si fossero impegnati in quel senso: Scalfari (socialista), Mussa Ivaldi (socialista), Gullo (comunista), Bonea (liberale), Albani (Indip. Sinistra di estrazione cattolica). La Liac affondò nel fuggi fuggi generale. La revisione dei Patti del 1929 continuò ad andare avanti, tra scossoni e lunghe pause: si sarebbe conclusa dieci anni dopo, ahimè, con un capovolgimento totale di prospettiva e di risultati rispetto alle speranze iniziali. Purtroppo, fu Bettino Craxi a firmare il nuovo patto, offrendo alla Chiesa concessioni e privilegi che forse Mussolini avrebbe evitato. I radicali avevano provato ad inserirsi nel lavorio di revisione, tentando il colpaccio della abrogazione dei Patti. Provarono a gettare tra le ruote del convoglio revisionista il macigno referendario evocato a Ravenna. Arrivarono a raccogliere le cinquecentomila firme solo nel 1977 - quasi dieci anni dopo quel congresso - facendosi forza dei risultati del referendum sul divorzio e della dilagante campagna sull'aborto, che aveva provocato ancora una volta lo scandaloso scioglimento anticipato delle Camere. Le firme passarono il vaglio della Cassazione. Ma il regime aveva capito che quel macigno era ben pericoloso, pronto a provocare intralci e danni devastanti e determinanti. Si doveva dunque incepparne la corsa, a qualunque costo. Il regime degenerava, e fu la Corte Costituzionale a porsi a cane da guardia del suo sfacelo, cassando non solo il referendum sul Concordato, ma anche quello sul Codice Rocco e sui codici ed ordinamenti militari. Questo è il senso storico della vicenda concordataria, o anticoncordataria, come possiamo leggerla oggi con maggiore chiarezza. Da quel punto di frenata occorrerà dunque ripartire, consapevoli peraltro che dal 1984 ad oggi le forze politiche - di ogni segno - hanno fatto ulteriori passi indietro nella difesa della laicità del paese, fomentando, per scarsezza culturale e ignavia morale, i peggiori equivoci. Le sinistre sono politicamente disgregate, smarrite e incerte, i moderati e i "liberals" della destra, del Polo, giocano sull'equivoco della cosiddetta società civile, presentata come contrapposta alla società politica e portatrice di esigenze e valori di autentica "libertà" rispetto a uno Stato sentito oppressivo e lontano, soprattutto per quel che riguarda i problemi della coscienza che dunque dovranno essergli sottratti senza indugio. Ma questa decantata società civile appare, o viene dipinta, come profondamente venata da rigurgiti antiilluministi, antirazionalisti, propensa a ritorni clericali, perfino sanfedisti, conditi di miracolismi, processioni, "meetings" santificanti e scossi da ardori assai prossimi, curiosamente, alle odiate manifestazioni di religiosità eretiche o comunque "vitandae" della "new age" o dei misticismi d'accatto, di provenienza americana e però capaci di attrarre a sé, strappandolo a Roma, questo o quel Milingo: equivoci, confusioni, smarrimenti, mai decantati al fuoco di un grande dibattito civile nutrito da una corretta, libera informazione. (fine parte prima) ***** (parte seconda) Occorrerà ricominciare, dunque, da un ammasso di macerie e di poveri stracci messi all'aria, senza poter contare su amici o su avversari chiari, in una confusione di linguaggi in cui l'unica cosa dolorosamente certa è la crisi e le incertezze delle ragioni laiche dinanzi al nuovo, agguerrito, clericalismo di potere che avanza chiedendo arrogantemente l'egemonia sulla evocata, ma anche mistificata società civile. Noi neghiamo la tentata identificazione della società civile con le ragioni della Chiesa. La dobbiamo negare, con la sua connessa pretesa di rovesciare e annullare irrinunciabili conquiste dell'illuminismo, della ragionevolezza laica, umana, sperimentale, e della sua espressione più incisiva, la difesa dei diritti civili, che è difesa dell'individuo in quella sua, tutta laica, inarrestabile ma anche misteriosa, ricerca della felicità sulla terra non a caso posta a fondamento della Costituzione federale degli Stati Uniti. Ripartire, dunque, è necessario e urgente. Ma da dove, verso dove, sotto quali bandiere, con quali programmi e progetti? La storica, grande, polemica anticoncordataria di stampo liberale aveva come suo presupposto e fondamento il cavourriano "Libera Chiesa in libero Stato". L'assunto che costituisce il nocciolo del motto è chiaro. Da una parte c'è lo Stato, dall'altra - Oltretevere, avrebbe detto Spadolini, in metafora - la Chiesa: i due soggetti, o interlocutori, viaggiano, si esprimono, operano su binari che non debbono, perché non possono, incontrarsi mai. I binari sono perfettamente paralleli, sul loro percorso Chiesa e Stato non hanno bisogno di Concordato. Sarebbe persino impossibile immaginarlo, visto che le competenze dei due soggetti, lo Spirito e la Materia, sono cartesianamente separati così da non contare alcun punto in comune. Tutto bene, salvo che la formula cavourriana considera pur sempre la Chiesa e lo Stato come entità istituzionalmente ben definite, ciascuna responsabile dei e per i suoi aderenti - i fedeli di là, gli amministrati di qua - in nome e per conto dei quali essa opera. La Chiesa con i battezzati, di cui cura l'anima, lo Stato rivolto invece al benessere materiale, civile dei cittadini. Una architettura grande e nobile. Ma nella realtà storica del nostro Paese i due soggetti hanno finito per pestarsi, assai sovente, i piedi l'uno con l'altro. Per di più, lo Stato italiano è debole, mentre la Chiesa è, in Italia, potenza dominante. Dunque, i due binari tenderanno a incrociarsi, a scavalcarsi reciprocamente. La tentazione del Concordato è sempre incombente, e Mussolini la colse con grande abilità, e perfino con un pizzico di attenzione per le ragioni dello Stato. Pur recependone le ragioni, il discorso radicale non combacia con la cultura e la dottrina liberale. Le campagne radicali anticoncordatarie non hanno come obiettivo primario la "liberazione" dello Stato dalla Chiesa e della Chiesa dallo Stato. Naturalmente, anche questo retaggio di cultura liberale è presente, si intravede nella filigrana delle iniziative e delle battaglie di ieri e di oggi: così come non mancheranno, nel modo come questi o quello le interpreta, le realizza riducendole alla propria misura, grossolani accenti anticlericali, diciamo ottocenteschi, positivisti. Ma il nocciolo primario non può non essere, ancora, l'appello alla liberazione della coscienza del singolo, prima di tutto in quanto credente. Però, si faccia attenzione, l'appello non è rivolto all'individuo, ma al cittadino. Il riservatissimo Concordato, sottratto alle mediazioni di Curia e governo, viene portato al giudizio dei cittadini, divenendo perfino oggetto di consumo della medialità televisiva. Nel confronto politico, meglio ancora se referendario, l'oggetto si riscatta, diventa questione di interesse generale, per tutti e ciascuno. "La politica va fatta parlando delle cose che interessano la gente (la ggente!)", si grida anche all'interno del partito radicale, nello sforzo di restituirgli un po' di voti. Ma la sfida referendaria è far diventare la libertà di coscienza un bisogno della gente. Per questo si è radicali e non dei "liberals", polisti o ulivisti che sia. San Paolo muore da cittadino romano, a differenza di san Pietro. A lui sarà mozzata la testa con un colpo di spada mentre San Pietro, che cittadino romano non è, viene ignominiosamente crocefisso. Col suo martirio, San Paolo porta nel cuore del potere una nuova contraddizione, quella tra l'esser contemporaneamente cittadino della città terrena e cittadino della città celeste. Non è, il suo, un messaggio di pace, ma di guerra e conflitto infiniti, che invano il cattolicesimo costantiniano cercherà di sedare, di reprimere, di soffocare, in una visione irenista, conciliatrice, benpensante. A nostro modestissimo avviso, il messaggio religioso moderno più vicino a quello paolino è il kierkegaardiano. Kierkegaard rifiuta, in nome della singolarità dell'essere, la dialettica hegeliana che cerca di intrappolare il singolo nel flusso della anonima storia sottraendogli, appunto, la sua singolarità. Il cristianesimo paolino esprime lo stesso rifiuto rispetto alla dialettica ecclesiale, chiesastica, clericale. I referendum radicali sul Concordato pongono più o mano la stessa sua ineludibile domanda, in forma assai più esigente che se pronunciata da Gesù di Nazareth: "Dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che a Dio appartiene". Quella che Gesù dà al fariseo tentatore può essere anche una risposta da levantino, abile ad evitare la trappola che lo porterebbe probabilmente all'incriminazione dinanzi alle autorità romane. San Paolo sfida l'autorità statuale dall'interno, e senza rinnegarla. La pone in contraddizione, e questa contraddizione è la storia stessa del cristianesimo. Perché il credente possa realizzare il comandamento divino, è dunque necessario non revisionare, ma abrogare il Concordato. Il Concordato è il rifiuto istituzionale all'interrogazione di San Paolo sulla separazione delle due cittadinanze. Le coscienze non debbono dunque accettare il Concordato, oltretutto stipulato tra due Stati. Sì, perché al momento della stipula la Chiesa, non potendo più, storicamente, essere teocrazia, si è fatta essa stessa Stato. In definitiva e in altre forme, siamo ancora alla concezione dello Stato come braccio secolare della Chiesa. L'irenismo, curialesco e politico, della Chiesa si sforza oggi, opportunisticamente, di andare d'accordo col mondo, con il potere, con la scienza, perfino con l'economia proclamando, almeno in questa provincialissima Italia, di poter convivere felicemente col il liberalismo e, secondo certi esegeti e universitari, anche con il liberismo. Ma ieri, non meno opportunisticamente, fu capace di mandare i cappellani militari a benedire le guerre mussoliniane e a sfilate su Via dei Fori al passo dell'oca, fianco a fianco con la MVSN. I "liberals" di oggi fanno autentici esercizi acrobatici per convincerci dei nuovi dogmi del liberalcattolicesimo. Il Manzoni, che pure cerca di dimostrare come solo mettendo in pratica i precetti della scuola manchesteriana - la libera circolazione dei grani e delle merci - si eviteranno carestie e peste, è però consapevole che questo illuminismo non basta a governare l'umanità; prima o poi verrà sconfitto, necessariamente, dalle vie misteriose del male. Quando ciò accade, lo scrittore fa intervenire la Provvidenza, che spazza il mondo con l'imperscrutabile vento della grazia, colpisce, uccide o salva seguendo il suo disegno imperscrutabile, non perforabile, non condizionato dalle "buone opere" promosse dalla Chiesa. Tra la provvidenza e le buone opere, perfino quelle razionalmente più corrette, adeguate e salvifiche, non c'è mediazione o rapporto di sorta. Se non conflitto, ci sarà abissale incomunicabilità. L'anticlericalismo religioso pannelliano, dei radicali di questi quaranta anni, ha cercato di porsi come laica barriera anche al cedimento della fede dinanzi alla verità mondane. Richiama il credente al distacco dall'illusione conciliatrice. Si appella alla sua coscienza perché faccia trionfare o almeno vivere, nel dialogo aperto, il diritto civile anche quando arbitrariamente denegato dall'illegittimo potere ecclesiale; perché ricordi alla Chiesa mondana che non è suo compito dettare legge alla scienza, per la semplicissima ragione che alla fede del calvario non importa un bel nulla della scienza, delle sue empiriche verità. Fu un amico ebreo a ricordarci appassionatamente che il Cristo non ha detto una sola parola che possa accennare, indicare, disegnare una cosmogonia, mentre nella Bibbia ebraica una cosmogonia c'è, è il racconto di una Genesi delle cose, del mondo, dell'uomo e della donna. Al Cristo, sottolineava l'amico ebreo, di queste cose nulla importa, chiede all'uomo solo la fede in lui, nelle ferite che gli piagano il costato, e basta. Tra pochi giorni, il XX settembre, i radicali italiani celebreranno di nuovo la breccia di Porta Pia. Un papa di questi ultimi anni - non ricordiamo se Paolo VI, Giovanni XXII o il suo felicemente regnante successore - dichiarò chiusa definitivamente quella breccia, con vantaggio non solo dello Stato ma della stessa Chiesa. Stando a quel che si vede intorno, la breccia non è affatto chiusa, richiede ancora sentinelle e vigilanza assidua. E' difficile dire se le commemorazioni radicali riusciranno a inoculare un minimo di attenzione, di prudenza, di riflessione in una classe politica sempre pronta - in tutte le sue componenti - a inginocchiarsi dinanzi alla prima autorità vaticana a tiro. Temiamo che il clima, le speranze, le possibilità politiche di successo siano ben inferiori a quelle che pure a momenti si intravidero a portata di mano nei due decenni di cui abbiamo tracciato una breve memoria. La Chiesa appare un monolite schierato dietro al Papa più culturalmente antimoderno e antiilluminista che si possa immaginare. Lo Stato è ancor più debole e inesistente. Dunque, la battaglia è tutta da avviare, ma innanzitutto da concepire nei suoi tratti essenziali, praticabili. Per quel che era nelle nostre forze, abbiamo portato un contributo di ricerca, e soprattutto di passione. Ma il più non spetta, ovviamente, a noi.