Cresce la tensione, si percepisce un nervosismo che rischia di trasformarsi in psicosi. Il senso di ansia si irradia da Genova e percorre tutto il Paese. La televisione rovescia nelle case le notizie sui pacchi bomba: Emilio Fede e i redattori del Tg4 hanno rischiato di farsi molto male, la bomba disinnescata a Bologna era letale, la missiva incendiaria inviata alla Benetton di Treviso serviva a spargere terrore. «Lo stillicidio ormai giornaliero degli attentati», come lo ha descritto il presidente del Senato, è una realtà. E per tutti, forze politiche e responsabili dell'ordine pubblico, è venuto il momento dei nervi saldi. Del resto, osserva il ministro Martino, «è stato fatto tutto il possibile». Quello che accadrà da oggi a domenica prossima appartiene al capitolo dell'imponderabile. È un territorio inesplorato sia per la maggioranza di governo sia per la sinistra di opposizione. Proprio la sinistra, quella che si riconosce nella Quercia, si trova di fronte al bivio più importante della sua storia recente. Non è solo la polemica sull'adesione alle manifestazioni anti G8 di sabato (all'indomani della giornata che si prevede più difficile, il venerdì in cui le tute bianche tenteranno di sfondare la zona rossa). Si capisce che è in gioco una prospettiva politica, molto al di là del «caso Genova». In primo luogo, se il gruppo dirigente dei Ds sperava di dare un po' di compattezza al partito, in vista del congresso d'autunno, il calcolo si è rivelato sbagliato. All'interno della Quercia ci sono riserve, distinguo, persino sconcerto. E il rapporto con la Margherita, che pure conta qualcosa nella logica dell'Ulivo, si è incrinato sulla politica estera ed europea: cioè il terreno più imbarazzante che si possa scegliere. Quel che è peggio, D'Alema e gli altri capi diessini si sono trovati esposti a un attacco concentrico: da destra, ed era prevedibile, ma anche da sinistra. È impietoso Bertinotti nel replicare proprio a D'Alema: «I Ds non sanno decidere dove stare: se con gli otto grandi e i potenti della terra o con quelli che contestano la loro pretesa di governare il mondo». Certo, la partita è fin troppo facile per il segretario di Rifondazione. Ma la sua analisi tocca il punto dolente. La Quercia rischia di ritrovarsi a metà del fatidico guado, più insidioso di quello memorabile in cui era il Pci negli anni Settanta e Ottanta. Rischia, cioè, di essere percepito come un partito che non sta né con «i potenti della terra» né con i sostenitori di un sia pur confuso modello alternativo. Questo è il timore che angoscia il gruppo dirigente. O almeno una parte di esso. Timore giustificato dalla lettura dei giornali. Quando Tony Blair, intervistato da Repubblica , afferma senza giri di parole che «non è la globalizzazione la minaccia che incombe sul mondo; anzi, la crescita del commercio mondiale è parte della risposta a molti problemi del mondo», si crea una frattura concettuale con pesanti conseguenze politiche. Idem quando il premier inglese nega qualsiasi valore all'ipotesi della Tobin Tax. Blair non è Bertinotti, bensì, al contrario, il faro di quella cosiddetta «terza via» su cui la sinistra riformista ha costruito negli ultimi anni il suo progetto politico. Logica avrebbe voluto che il vertice della Quercia sostenesse oggi le stesse tesi di Blair (peraltro non molto diverse da quelle di Bush), nonostante la sconfitta elettorale del 13 maggio. Viceversa l'ambiguità finisce per allontanare i Ds dall'Europa laburista; o socialista alla Schröder. Una frattura in Italia con Rutelli e la Margherita potrà forse essere ricomposta. Ma la stessa frattura, culturale e politica, con l'insieme della sinistra europea rischia di essere disastrosa. Non c'è da stupirsi quindi se le tesi di Blair saranno citate oggi nel convegno di Pannella ed Emma Bonino sulla globalizzazione. Così come è comprensibile che siano combattute dalla «sinistra antagonista», alla quale il blairismo non è mai andato giù. Ma nella tenaglia i Ds rischiano di perdersi. E molti di loro lo sanno.