L’economista Mio: declino prevedibile, ridurre il cuneo fiscale è solo un palliativo. «Pordenone fanalino di coda, manca il dinamismo veneto». Gli esempi da imitare
PORDENONE Era il 2005 - l’anno in cui la fabbrica di Porcia toccava l’apice produttivo nell’ultimo decennio - quando l’economista Chiara Mio, docente all’università di Venezia, in una intervista sosteneva che, nell’arco di 10 anni, la presenza a Pordenone di Electrolux sarebbe stata ridimensionata del 50 per cento, con ulteriori produzioni destinate a spostarsi. Un fenomeno ineludibile, affermava, che comporterà un riassestamento dell’indotto. A otto anni di distanza quelle parole risultano profetiche. Uno scenario prevedibile e quindi evitabile, ma non c’è stata la lungimiranza per farlo. Così le fabbriche sono rimaste fabbriche e non sono diventate imprese innovative e oggi per il manufatturiero la trasformazione passa attraverso la cruna dell’ago di delocalizzazioni, mobilità e tensioni sociali.
Professoressa Mio, perché non si è per tempo affrontato il nodo cruciale dell’evoluzione del manifatturiero?
«Negli anni Novanta e Duemila, quando il pil procapite beneficiava di un’industria in crescita, si è continuato a pensare in maniera statica. A quel tempo si doveva rinnovare il prodotto, invece l’innesto di una innovazione sostanziale non c’è stata. La lavatrice è rimasta sostanzialmente quella di un tempo con qualche funzionalità in più. Così le fabbriche sono rimaste fabbriche e non sono diventate imprese. Se si pensa che negli anni Novanta è stato smantellato a Porcia il centro di ricerca sul lavaggio si comprende l’errore strategico. Così oggi che la competizione è sul costo, con mercati interni in recessione, la crisi chiude gli stabilimenti».
E’ quindi colpa anche della classe dirigente di Electrolux?
«Condivido quanto detto dall’ex ministro Sacconi: è mancato il management. Se pensi di competere solo sul costo, non ce n’è per nessuno. La lavatrice, al di là del design e della certificazione energetica, è quella di vent’anni fa, non c’è stata innovazione tale da trasformarla. Eppure per altri prodotti questo è stato fatto, tant’è, come ha detto Sacconi, che nel Nordest ci sono imprese che stanno andando molto bene».
Lei ritiene che la riduzione del cuneo fiscale indirizzata al settore dell’elettrodomestico possa salvare gli stabilimenti italiani di Electrolux?
«Dato per scontato, e non lo è, che ci siano risorse per poterlo fare, è come fornire ossigeno per un anno; non si risolve il problema. Nella competizione globale c’è sempre qualcuno più bravo sul fronte dei costi rispetto a chi produce in Occidente».
Eppure per trent’anni il sistema ha tenuto, con le imprese che andavano all’estero e conquistavano quote di mercato...
«Grazie alla svalutazione della lira negli anni Ottanta e Novanta e all’acerba capacità produttiva di Paesi emergenti i quali però hanno compiuto passi da gigante».
Questo vuol dire che vendere, a esempio in Cina, non è più possibile?
«Tutt’altro, il mercato cinese è pieno di opportunità, ma bisogna andarci con la mentalità giusta. Se pensiamo di presentarci con il marchio di Turismo Fvg o con quello del distretto del mobile del Livenza non abbiamo capito nulla. E’ già tanto se in Cina sanno dov’è l’Italia».
Quindi?
«Bisogna presentarsi come sistema Paese, aggregando gruppi aziendali che siano in grado di fare massa critica e proporre un aggregato di prodotti. Non c’è ancora questa mentalità. Insomma non vedo i germi del cambiamento».
E’ un problema di tutta Italia o solo del Nordest?
«Il Nord ovest, che ha vissuto la crisi del manifatturiero prima di noi, si è attrezzato. Penso agli investimenti sulla cultura che Profumo è riuscito a portare a Torino e che hanno trasformato quella città, all’esperienza di Farinetti con Eataly. Ma anche nel Nordest è in atto una profonda evoluzione».
Che non vede in Friuli?
«Purtroppo no, anzi penso che Pordenone sia diventata l’epicentro della crisi. Il Friuli fa più fatica ad aprirsi, anche per una ragione storica, di popolo: il Veneto ha una lunga tradizione di mercanti, noi no. Se poi certa classe dirigente non va oltre Lignano e Piancavallo, si può capire il grado di apertura».
Non vede i segni di una trasformazione dal basso?
«Sì, ce ne sono. Cito un caso: la Mcz di Fontanafredda qualche anno fa fatturava 50 milioni; ora sono 80, con 300 addetti e un utile raddoppiato. Eppure si dedica a un prodotto maturo - i caminetti - che è stato innervato di innovazione vera, tant’è che vende in Norvegia dove gli standard di ecocompatibilità sono rigidissimi, inavvicinabili per i produttori del Far East. Sa come ce l’hanno fatta? Reinvestendo gli utili, dando agli amministratori compensi non stratosferici, con umiltà spendendo un sacco di soldi nella ricerca».
Insomma il modello è quello della media impresa?
«A differenza della grande, più soggetta ai cicli, in positivo e in negativo, la media impresa è più flessibile e radicata nel territorio. E’ il modello che funziona nelle Marche e in Lombardia e arranca nel distretto del mobile liventino».
A cambiare deve essere anche la classe dirigente?
«Senza dubbio. Spero di essere smentita, ma non vedo una rigenerazione dall’interno. Se c’è, è ben nascosta».
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