Alitalia all’ultimo atto. Mentre Ita Airways e Lufthansa volano verso le nozze, la vecchia compagnia di bandiera, in amministrazione straordinaria, licenzia 2.668 lavoratori in Cigs a zero ore. In una lettera inviata al governo e ai sindacati annuncia "l’avvio di una procedura che determina, suo malgrado, licenziamenti per riduzione di personale". Nel dettaglio, scrivono i commissari, rimangono attualmente alle dipendenze dell’amministrazione straordinaria "2.840 lavoratori, 2.668 dei quali sospesi in Cigs a zero ore e 172 impiegati allo stato per le esigenze connesse al completamento del programma" di gestione dell’ultima fase di liquidazione, "la cui data di ultimazione è fissata al 15 gennaio 2024". Allo stato attuale "tutti i prestatori di lavoro non impiegati nelle attività funzionali alla liquidazione appaiono come eccedenti" e "la scrivente è impossibilitata al reimpiego dei lavoratori attualmente sospesi in cassa integrazione", si legge nella missiva, in cui viene illustrata la vicenda della compagnia.
Per cui si salvano in 172, mentre per 2.668 dipendenti scatterà il licenziamento collettivo alla scadenza della Cigs il prossimo 31 ottobre 2024, termine "non ulteriormente prorogabile", si legge sempre nella lettera.
Immediata la reazione dei sindacati, che hanno chiesto una proroga della misura. "Il governo intervenga subito affinché i lavoratori di Alitalia non vengano abbandonati al loro destino", è l’appello del segretario generale della Uiltrasporti, Claudio Tarlazzi. Per il segretario generale Fit-Cisl, Salvatore Pellecchia, la notizia di questi licenziamenti "giunge in maniera totalmente inaspettata" ed è "surreale ed incomprensibile". Serve "la proroga della Cigs, almeno fino alla loro ricollocazione", sottolinea.
Giada Sancini
Uno dei libri che continuava a rileggere era la Recherche di Marcel Proust. In fondo, tutta la vita di Roberto Pazzi è stata un’inesauribile ricerca, un affresco di grandi domande, prima ancora che di granitiche risposte. "Fin da ragazzo c’è un pensiero che mi accompagna, quello della morte – ci aveva confidato in una conversazione di due anni fa –. “Perché sono nato se non per sempre?“, diceva Ionesco". Ma in fondo – aggiungeva – "senza la morte la vita sarebbe insopportabile, l’immortalità sarebbe la ripetizione di tutto". Quella morte che proprio ieri ha bussato alla sua porta: narratore, poeta, docente e giornalista, tradotto in 26 lingue, nonché apprezzato opinionista di Qn e Il Resto del Carlino, Roberto Pazzi si è spento all’ospedale della sua Ferrara, dove era ricoverato da una settimana. Aveva 77 anni.
Originario di Ameglia (La Spezia), Pazzi viveva a Ferrara da sempre. Si era laureato in Lettere a Bologna con Luciano Anceschi, ha insegnato nelle scuole superiori poi agli atenei di Ferrara e di Urbino. Le atmosfere antiche e metafisiche della città (dove ha fondato anche Itaca, scuola di scrittura creativa) lo accompagnavano e lo ispiravano: "Sono ironico, ariostesco, metà pagano, metà cristiano, metà incredulo e laico, metà mistico", si definiva. Un uomo animato da una profonda curiosità e inquietudine intellettuale che proprio nelle eterne domande trovava la sua chiave: "Sono incapace di restare nel gregge e di adeguarmi al consenso comune", diceva.
Il sacro e la storia sono stati sempre i territori della sua “recherche“ che si è dipanata in più di trenta libri. Già negli anni ‘70 Roberto Pazzi pubblicò alcune raccolte in versi ma fu il suo esordio narrativo, con Cercando l’imperatore (edito da Marietti nel 1985), a renderlo amato dal grande pubblico. In quel romanzo, con la postfazione di Giovanni Raboni, Pazzi raccontava la rivoluzione russa dalla parte di chi l’aveva perduta, lo zar Nicola II e la dinastia dei Romanov: "Nel mio immaginario di poeta assetato di epica, prediligevo le cause dei perdenti – scrisse –. E chi più perdente dello zar, massacrato con i suoi giovani figli, come il nostro conte Ugolino? E senza nemmeno il processo che la Rivoluzione Francese concesse a Luigi XVI e Maria Antonietta".
Fra i suoi romanzi più famosi e premiati, Vangelo di Giuda del 1989, in cui affioravano anche le grandi questioni su Cristo e sulla Chiesa, o Conclave del 2001, storia della tormentata elezione di un nuovo Pontefice, quasi ad aprire la strada a quell’ Habemus Papam che Nanni Moretti avrebbe raccontato al cinema dieci anni dopo. E Hotel Padreterno, pubblicato due anni fa, in cui Roberto Pazzi immaginava che Dio scendesse sulla Terra, in Italia, per immergersi nella vita della sua creature, nel Bene e nel Male: "Personalmente credo in Dio ma non sono sicuro che sia come ce lo consegnano le religioni monoteistiche", ammetteva lo scrittore.
Quasi come un’ultima mozione degli affetti, proprio fra pochi giorni La Nave di Teseo manderà in libreria La doppia vista, il romanzo che Roberto Pazzi ha completato appena poche settimane fa: la storia di uno scrittore che si sveglia una mattina in uno stato di grande confusione, non ricorda più chi sia, e inizia a confondere i suoi personaggi con le persone che più ha amato nella vita. Nella sua “doppia vista“ le invenzioni letterarie si sovrappongono agli affetti privati, l’immaginato diventa vissuto. "Caro Roberto, amico di una vita – è il pensiero che Elisabetta Sgarbi ha dedicato allo scrittore –. Te ne sei andato quando è arrivato il tuo ultimo, finale libro: uno scambio tra vita e vita, tra vita terrena e vita letteraria, che ha eluso la morte, scambio di cui solo i veri scrittori sono capaci. Ci costringerai a parlare non della tua assenza, ma della tua presenza nelle tue pagine letterarie. Hai voluto così".
"Ho fatto questo film semplicemente perché penso che il tema dell’energia, dell’aumento dei consumi e della ricerca di una soluzione che vada bene per il pianeta e che combatta anche la povertà delle persone, sia il tema più importante per il futuro del mondo e dei nostri figli. E per cercare di spiegare la verità sull’energia nucleare che è la fonte energetica meno dannosa e più economica possibile". Con queste parole il premio Oscar Oliver Stone (foto) ha raccontato il suo ultimo film, il documentario Nuclear Now, presentato ieri all’ultimo giorno del 41° Torino Film Festival. Oggi Stone porterà il film a Bologna, poi sarà a Roma.
Ancora una volta Stone fa un film politico: "Riguarda il governo del mondo, un mondo che chiede sempre più energia e in cui è difficile comunicare la verità. E che fa confusione tra armi nucleari ed energia nucleare. Lo sviluppo dell’energia oggi paga lo scotto della bomba nucleare, la gente si rifiuta di andare a fondo e capire, come ho fatto io parlando con scienziati nel film. Vorrei fosse uno strumento per le persone per non farsi prendere in giro". Stone se la prende con chi nasconde la verità, anche pensando di fare il bene come tanti ambientalisti: "Non dico no alle rinnovabili, ma non arriveranno a coprire il fabbisogno. Sotto i nostri piedi, gli atomi di uranio della crosta terrestre contengono un’energia concentrata meno rischiosa di altro".
Nove ore sotto torchio Filippo Turetta, che passerà in carcere il suo ventiduesimo compleanno il 18 dicembre, e addirittura quattordici ore per l’autopsia della coetanea, ex fidanzata e vittima Giulia Cecchettin sul tavolo dell’Istituto di medicina legale di Padova: la giornata di venerdì è stata, come si pensava, cruciale per definire i contorni di questa macabra vicenda che da venti giorni sta tenendo gli italiani col fiato sospeso. Ma ora la Procura di Venezia ha qualche carta in più nell’istruire il processo nei confronti dell’omicida. Anche se le attività di indagine non finiscono certo qua: il pm Andrea Petroni tornerà a interrogare Turetta in carcere; il Ris di Parma comincerà a esaminare anche l’auto della fuga in arrivo dalla Germania oltre al lavoro che sta facendo su tutti i reperti catalogati in via Aldo Moro a Vigonovo, nella zona industriale di Fossò e nel canalone di Barcis dove il cadavere della ragazza è stato ritrovato.
Intanto Filippo, che davanti alla gip Benedetta Vitolo aveva biascicato poche cose seppur importanti – "Ho ucciso Giulia" – ha parlato al pm rispondendo a molte sue domande anche se alcune farcite di "non ricordo" e del mantra "non so che cosa mi è scoppiato in testa, devo ricostruire la mia memoria". "Colpivo Giulia, l’ho vista morire", lei cercava disperatamente di difendersi a mani nude ha dichiarato. "L’amavo, la volevo solo per me, non accettavo che fosse finita. Quello che ho fatto è comunque orribile e ne voglio pagare le conseguenze" ha ripetuto Turetta, che non si rassegnava e vedeva nelle amiche della Cecchettin e nella sorella Elena le sue nemiche, quelle con le quali lo avrebbe "tradito". In un racconto costellato di lacrime, fiato che se ne andava, tentennamenti, ma senza avere mai chiesto del cibo, Filippo ha detto che all’ennesimo no di Giulia a rimettersi con lui – pronunciato nel parcheggio di via Aldo Moro, 150 metri da casa di lei dove sono stati visti dal testimone che ha inutilmente chiamato i carabinieri – ha estratto il coltello da 12 centimetri e ha cominciato a colpire la ragazza che gli diceva "stai fermo, mi fai male". Giulia tenta di scappare, ma Filippo la raggiunge e la trascina in auto chiudendole la bocca col nastro adesivo. Quindi parte per Fossò, dove nel pomeriggio era andato in sopralluogo. Qui avviene l’assalto finale: fendenti al torace e al collo, ma senza colpire giugulare o carotide, fino a quello mortale che recide l’aorta: Giulia sviene e muore in breve tempo dissanguata.
La narrazione deve essere completata, il pm interrogherà di nuovo Filippo per sapere di più sulla fuga e in attesa dei risultati dell’autopsia in attesa di contestare a Turetta la premeditazione e la crudeltà. E per capire se ci sia stata violenza sessuale e complicità nella fuga. Al momento le accuse restano omicidio volontario aggravato dal vincolo affettivo, sequestro di persona e occultamento di cadavere. L’autopsia avrebbe confermato l’uso del solo coltello da 12 centimetri e che la morte di Giulia è avvenuta a Fossò: ciò rende definitiva la competenza della Procura di Venezia. Procura che ora attende i passi della difesa soprattutto sulla perizia psichiatrica. Intanto, se nel termine di sei mesi dall’arresto saranno completate le indagini, gli inquirenti potranno chiedere il processo con rito immediato e il giudice potrà disporlo anche con eventuali altre aggravanti contestate.
Marmo
Italia non tornerà a essere un Paese normale fino a quando non si troverà un equilibrio ordinato e funzionalmente efficace tra politica e giustizia.
È del tutto evidente che negli ultimi trent’anni la fisiologica dinamica e la leale dialettica nei rapporti tra il potere giudiziario e quello politico in senso lato sono saltate. Con plateali invasioni di campo e altrettanto sproporzionate reazioni da entrambi i lati. Tant’è che negare l’esistenza dello scontro aperto e del conflitto carsico permanente può essere solo una forma di ipocrisia istituzionale, che non aiuta certo a capire e risolvere i nodi della aggrovigliata questione.
Le parole distensive e le formule retoriche che pure si ascoltano lasciano, in realtà, il tempo che trovano e come abbiamo visto durano lo spazio di un mattino. Lo snodo è, invece, tutto di merito e genuinamente politico. Da un lato varrebbe la pena evocare i Padri costituenti e la Costituzione non in maniera unilaterale e solo se e quando l’evocazione è funzionale alla propria tesi. E, dunque, forse non è peregrina la considerazione che vede nella eliminazione delle guarentigie dei parlamentari, volute dai costituenti, avvenuta per il furore giustizialista di Tangentopoli, un vulnus mai più sanato. Dall’altro lato, il processo di panpenalizzazione della vita associata, per cui si affida alla magistratura penale la soluzione di ogni problema economico, sociale e politico (come ha fatto anche questo governo) non fa altro che far tracimare e debordare il potere giudiziario.
Dunque, la ricerca di un equilibrio nuovo e ordinato non può che passare anche dalla riconsiderazione di garanzie per la politica e di capacità di non attribuire più alla magistratura funzioni pervasive e di supplenza senza limiti.
Niente conferma più di una smentita. E non fa eccezione la premier Giorgia Meloni che, incontrando i cronisti a margine del Cop28 di Dubai, nega recisamente che la destra di governo possa giammai rendersi fautrice di uno scontro con la magistratura, eccezion fatta per alcune frange. Una della quali, Magistratura democratica (Md), si dichiara vittima di "gravi attacchi" da parte del governo.
Se non bastasse questo a render conto del conflitto in atto, ci pensa il presidente del Senato e compagno di partito della premier, Ignazio La Russa, a dimostrare quanto in effetti sia scivolato di mano e degenerato il rapporto tra esecutivo e toghe. E tira perciò il freno sulle annunciate riforme della giustizia: "Sarebbe un errore avviare più di una semplice apertura di dibattito sul tema", osserva, nel momento in cui sono già in campo riforme come il premierato e l’autonomia. La carne al fuoco, insomma, è sin troppa.
"Non credo ci sia uno scontro tra politica e magistratura". Mancava solo la parola distensiva della premier nell’ennesimo capitolo del duello tra politica e toghe. "Per chi viene da destra, chi serve lo Stato è sempre un punto di riferimento e quindi l’idea che ci debbano essere scontri tra poteri dello Stato è sbagliata", dice Meloni rivendicando di aver "sempre lavorato per rafforzare il potere dei magistrati". Anche se il più celebrato e mediatico dei magistrati antimafia, Nicola Gratteri, non lesina critiche all’azione del governo – ma anche di quelli precedenti – e le riforme "inapplicabili" del ministro Carlo Nordio. Contro cui tuona anche il 5 Stelle ex togato Roberto Scarpinato, che considera le ipotesi di valutazione proposte dal ministro una sorta di mordacchia ai giudici.
La premier, comunque, cerca di minimizzare. È solo "una piccola parte della magistratura" che a suo avviso ritiene che certi provvedimenti governativi difformi da "una certa visione del mondo debbano essere contrastati, come è accaduto ad esempio sull’immigrazione". Di qui alle riforme, l’acqua gettata da Meloni si trasforma in benzina sul fuoco. Non che non sia "perfettamente legittimo" esprimere opinioni critiche sulle riforme, ma sentirsi rimproverare "che la riforma costituzionale aveva una deriva antidemocratica", come ha fatto l’Anm, per la premier ha il sapore di un intervento politico. "Nessuno scontro" per carità, ma per Meloni le toghe son andate "un po’ fuori dalle righe". Mentre sul caso del fedelissimo e plenipotenziario alla giustizia, Andrea Delmastro, la premier fa sfoggio di garantismo inusitato: "È il caso di aspettare una sentenza di condanna passata in giudicato, eventualmente, per definirlo colpevole".
La segretaria del Pd Elly Schlein torna invece sulla polemica di Crosetto nei riguardi delle parole dei magistrati di Md che rivendicano il dovere di "difendere i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione anche quando è la maggioranza ad attaccarli". Per Schlein "è la base di una democrazia, che non è la dittatura della maggioranza, ma si misura proprio nella tutela che garantisce ai diritti delle minoranze".
Ma a far notizia è certamente la frenata alle riforme della giustizia impresse da La Russa, che pure ridimensiona la componente togata critica verso il governo. "La giustizia non è la meno importante ma è la più divisiva – osserva il presidente del Senato – Guardate l’ira di Dio scatenata dalle parole di Crosetto. Bisogna sedimentare le condizioni e ragionare tutti insieme". Decantare insomma. "Ora la prima riforma è quella della democrazia diretta per dare maggior peso ai cittadini", sancisce la seconda carica dello Stato. Anche perché la bocciatura da parte di Gianni Letta dimostra quanto invero sia indigesta a diversi ambienti di FI, oltre ai leghisti da sempre per il cancellierato. Ma Meloni al premierato non rinuncerà mai. Serve a suo avviso a rafforzare "la stabilità del governo, che vuol dire rafforzare le scelte strategiche". E secondo la premier non intacca le prerogative del Quirinale "perché è stata scritta in maniera tale da non toccare i poteri".
Cosimo Rossi
Villois
Che gli italiani siano in sonno lo si deduce da un comportamento inusuale per un Paese come il nostro, che fino alla seconda parte del secolo scorso era ai vertici degli indici demografici europei. Una demografia in inverno vuol dire Caporetto per le pensioni, ed è totalmente in contrasto con l’obiettivo conclamato di andare in pensione presto, come facevano gli attuali 7080 enni andati di media in pensione a 55 anni. Parimenti in questo sonno, dichiarato dal Censis, c’è una totale assenza di futuro, visto che ormai il lavoro, dalla generazione dei trentenni in giù, non rappresenta più una componente essenziale per guardare al futuro, con aspettative migliorative, ma un incomodo periodo a cui bisogna dedicare poco tempo, limitato impegno, e scarso senso di appartenenza e condivisione. Demografia e lavoro sono e saranno il fattore essenziale per evitare che si sprofondi in un buco nero. L’esagerato e indifendibile ricorso all’evasione ed elusione fiscale, da parte di un alto numero di italiani, è la terza gamba dello sprofondare, perché denota quanto molti italiani pretendano molto per se e siano totalmente disinteressati alle sorti del Paese. La quarta gamba è la scarsa attenzione che hanno le famiglie verso l’istruzione, sia in rapporto di fatiscenza di edifici e attrezzature che di progetto didattico formativo. Sono i quattro perni che rappresentano il punto di snodo e risalita o la caduta senza possibilità di rilancio. L’Italia è forse il Paese più bello del mondo, l’italiano è stato un lavoratore sovente illuminato, tanto da realizzare la filiera produttiva più vasta del mondo. Riappropriarsi di quello spirito e condirlo di modernizzazione ci riporterebbe a essere una nazione vincente e da imitare.
PADOVA
Sono confermati martedì alle 11 nell’immensa Basilica di Santa Giustina in Prato della Valle, l’antica piazza del mercato di Padova, i funerali di Giulia Cecchettin. I manifesti funebri sono apparsi ieri mattina nelle ore in cui si attendeva lo scontato nulla osta della magistratura dopo la fine dell’autopsia sul corpo della povera studentessa che avrà quella laurea che non ha potuto ottenere in vita perché il suo ex Filippo Turetta l’ha uccisa sei giorni prima. Celebrerà le esequie il vescovo patavino, monsignor Claudio Cipolla; sull’altare accanto a lui ci sarà il parroco di Saonara, don Francesco Moretti, molto legato alla famiglia di Monica Camerotto, la madre di Gulia morta per un male incurabile nell’ottobre dello scorso anno. Si attende un afflusso di gente impressionante, fino a 10mila persone; fuori dalla chiesa il Comune monterà due maxi schermi affinché tutti possano assistere alla celebrazione. Matedì sarà lutto regionale e il presidente del Veneto, Luca Zaia, sarà presente in Basilica a fianco del sindaco del capoluogo, Sergio Giordani, dei primi cittadini di Vigonovo e Saonara e di tante altre autorità. E’ probabile sarà a Padova per dare un forte segnale di contrasto ai femminicidi il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella; il Comitato provinciale per la sicurezza pubblica attende anche notizie relative alla premier, Giorgia Meloni, che in quel giorno è però impegnata in Parlamento per il voto alla manovra finanziaria.
Stasera alle 19.30 si terrà invece un Rosario nella parrocchia di Saonara dove alle 14 di martedì avverrà un momento di preghiera "per il saluto della comunità a Giulia"; la chiesa di San Martino avrebbe dovuto ospitare i funerali (quella di Vigonovo è in ristrutturazione), ma l’enorme coinvolgimento in tutta Italia sulla vicenda di Giulia ha fatto optare per la scelta di Padova. Nel manifesto funebre, la famiglia Cecchettin invita a non inviare fiori "ma offerte per opere di bene" in memoria della ragazza. "Il tuo sorriso – è scritto in campo azzurro con la foto sorridente della ventiduenne e un mazzo di fiori in un vaso – il regalo più bello. Il tuo amore un messaggio per il mondo". "Chiedo all’intero Veneto – ha scritto Zaia – un segnale corale forte e chiaro contro la violenza di genere. In nome di Giulia dobbiamo continuare a lavorare stretti gli uni agli altri".
r. j.
I Paesi nuclearisti cercano di rilanciare il ruolo dell’atomo come risposta alla crisi climatica. In una dichiarazione congiunta alla Cop28, una ventina di Paesi, tra cui Usa, Francia, Canada, Regno Unito, Giappone, Polonia, Corea ed Emirati Arabi, hanno chiesto di triplicare la quota di nucleare nella produzione elettrica mondiale entro il 2050 – quindi di passare dal 9,8 a circa il 30% – al fine di ridurre la dipendenza dal carbone e dal gas. L’annuncio è stato fatto da John Kerry, inviato Usa per il clima, in compagnia di diversi leader tra cui il presidente francese Emmanuel Macron. Tuttavia, Cina e Russia, i principali costruttori di centrali nucleari al mondo, non sono tra i firmatari.
Triplicare la quota da qui al 2050 sembra una impresa quasi impossibile, considerando il fatto che l’età media dei 412 reattori operativi nel mondo (28 in meno del picco del 2002) è alta (31 anni, con 105 oltre i 40 anni) e molte unità, seppure allungandone la vita media, dovranno essere sostituite anche solo per mantenere lo share attuale. A questo si aggiunge il problema dei tempi (media 6,8 anni, ma per i grandi Epr francesi di terza generazione come quello costruito in Finlandia si sono superati i 12 anni) e dei costi (passati per gli Epr da 3,4 a 11 miliardi di euro). Oggi, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, in Europa il costo di un impianto nucleare è di 71 dollari a MWh, come un impianto a gas, mentre un impianto fotovoltaico di grossa taglia produce a 70 dollari MWh e un eolico a terra a 55.
Una grande speranza dei nuclearisti sono gli Smr, piccoli reattori modulari, più veloci da costruire e con una serie di sistemi di sicurezza anche intrinseca. Ne esistono ben 82 tipi diversi, con varie tecnologie e taglie, ma solo due (uno “navale“ russo e uno cinese) sono in rete. Altri entreranno in funzione nei prossimi anni, ma le loro performance sono da valutare. E sui costi il dibattito è aperto specie dopo che il NuScale, il progetto americano più avanzato, è stato cancellato lo scorso settembre.
Non a caso Giorgia Meloni, a differenza di Matteo Salvini, è più che prudente e guarda piuttosto alla prospettiva potenzialmente più interessante, il nucleare da fusione. "Su queste questioni – ha detto ieri a Dubai – bisogna essere molto pragmatici e non ideologici: io non ho preclusioni su nessuna tecnologia che possa essere sicura e che possa aiutarci a diversificare la nostra produzione energetica. Non sono però certa che oggi cominciando da capo sul tema del nucleare l’Italia non si troverebbe indietro, ma se ci sono evidenze del fatto che si possa invece avere un approccio con un risultato positivo sono sempre disposta a parlarne". Ha proseguito: "Credo piuttosto che la grande sfida italiana, anche se è un po’ più da venire, sia il tema della fusione nucleare. Potrebbe essere la soluzione domani di tutti i problemi energetici, ed è una di quelle tecnologie sulle quali l’Italia è più avanti di altre. È un elemento sul quale troverete sempre il mio massimo sostegno, perché io credo che l’Italia debba avere la capacità di pensare in grande e questo è uno di quei temi in cui può farlo".
Quello a cui Meloni guarda è la Commonwealth Fusion Systems (Cfs), nel quale ha molto investito Eni e che sta costruendo l’impianto Sparc, che sarà pronto nel 2025, e dovrebbe fare da banco di prova per lo sviluppo di Arc, la prima centrale a fusione su scala industriale, la cui realizzazione è prevista entro i primi anni del 2030. Se funzionasse e i costi fossero accettabili, come sperano Cfs ed Eni, cambierebbe tutto.
Alessandro Farruggia
Torna il terrore a Parigi: il grido di ‘Allah Akbar’ è risuonato ieri sera prima delle 22 proprio sotto la Tour Eiffel: un assalto ai turisti, un tedesco nato nelle Filippine che è stato ucciso e la sua compagna ferita, a colpi di martello e coltello, così come un uomo che ha tentato di difenderli. Ad agire, un francese nato in Francia ma – a quanto sembra – di origini siriane e schedato S, cioè "a rischio radicalizzazione" e con problemi psichiatrici. Arrestato dalla polizia che lo ha fermato usando una pistola "taser" dopo un inseguimento, avrebbe detto di "non poterne più dei musulmani che muoiono in Afghanistan e in Palestina", secondo quanto riferito dal minsitro dell’Interno, Gérald Darmanin. Il presidente francese Emmanuel Macron, che si trova a Doha, è in contatto con Darmanin.
Secondo le prime notizie trapelate da fonti della polizia, l’aggressore ha 26 anni, è nato a Neuilly-sur-Seine, periferia residenziale e chic di Parigi, ma risiede nella vicina Puteaux. Si chiamerebbe Armand Rajabpour-Miyandoab e nella sua fedina penale – oltre alla schedatura come a rischio radicalizzazione islamica – c’è anche un precedente arresto nel 2016 con successiva condanna a 4 anni di carcere perché stava preparando un attentato simile a quello di ieri sera alla Défense, il quartiere degli affari di Parigi. Secondo i testimoni, l’uomo ha agito con un martello con il quale ha colpito violentemente la sua vittima, un turista tedesco che stava passeggiando sul Quai de Grenelle vicino al Ponte di Bir-Hakeim, con vista sulla Tour Eiffel. La serata, fredda ma con il cielo stellato, favoriva la presenza di migliaia di persone sulle rive della Senna fra la Tour Eiffel sulla rive gauche e il Trocadero sulla rive droite. L’attentatore è stato inseguito a lungo dalla polizia, avvertita dai passanti. È stato avvistato e successivamente circondato, con i poliziotti che – secondo Darmanin – hanno fatto ricorso a una pistola Taser "poiché l’uomo teneva le mani in tasca come se avesse degli esplosivi". L’inchiesta è stata affidata alla polizia criminale di Parigi e non all’antiterrorismo,
Il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi ha ricordato ieri l’amico: "Roberto Pazzi è il poeta che più di tutti ha sentito Ferrara come una città dell’anima, dove vivere e morire, come è stato, in una dimensione inevitabilmente metafisica. Le sue poesie, i suoi libri, i suoi racconti ci accompagneranno come momenti della vita e della sensibilità ferrarese più autentica. Che non ha niente di locale o di provinciale ma è la dimensione universale della provincia. Ferrara è stata la sua vita, e Roberto poteva ripetere per sé i versi di Ludovico Ariosto: “Se io non fossi, di ogni cinque o sei mesi, stato uno a passeggiar fra il domo e le due statue dei marchesi miei, da sì noiosa lontananza domo, già sarei morto“. Ferrara era per lui (e per noi) la città necessaria, di qua o di là. E a Ferrara vivrà la sua morte".
Ogni storia meriterebbe di essere raccontata. Raccontare storie passate, di altre epoche, di gente comune, che possano aiutare gli altri a non scordare i valori fondamentali: è questo il bisogno che ha sentito Massimo Canino (foto), scrittore fiorentino, giornalista e appassionato marinaio, dando vita a Frontemare, il suo nuovo libro (Minerva Edizioni). Un volume che raccoglie e racconta 18 storie di "persone straordinariamente normali, comuni", come le definisce Massimo, scritte dopo un viaggio di quattro mesi a bordo della sua barca a vela “Mary Bird VII“. "Sono storie di gente normale, che vive nei porti, gente che ho conosciuto, la cui esistenza può rappresentare un esempio di moralità, altruismo, amore per il prossimo e solidarietà – afferma Canino –, storie di epoche diverse, alcuni racconti me li hanno fatti i parenti dei protagonisti che non ci sono più". Come quella di una signora ultranovantenne, figlia di un medico, che con toni nostalgici rievoca la generosità di suo padre che dava soldi a chi non ne aveva, oppure gli acquistava medicine.
Uno spaccato di vita dove emerge il forte legame tra lo scrittore e il mare, tanto da aver percorso quasi 500 miglia andando a caccia di storie, per scriverle miglio dopo miglio. "Ho dedicato l’intero libro ai giovani, perché sappiano da dove siamo partiti e perché da questi racconti devono imparare valori come la generosità, l’altruismo, le stesse qualità che hanno avuto i miei protagonisti raccontandomi le loro storie di vita vissuta".
Canino ha reso la sua barca a vela una sorta di “barca-redazione“, l’ha trasformata in un raccoglitore di ricordi pronti a rivivere tramite le parole scritte, per poter essere fonte di insegnamento. "L’idea del libro nasce durante una vacanza all’Elba quando incontrai un minatore che mi raccontò la sua esperienza, lunga più di trent’anni. Una vita di stenti. Un uomo che vedeva raramente la luce del sole. È lì che mi è scattato qualcosa: rendere pubblico ciò che le persone prima di noi hanno vissuto e provato", spiega Canino. Anche lo stesso autore ha imparato qualcosa da questi racconti, decidendo di devolvere parte del ricavato alla fondazione dell’ospedale pediatrico fiorentino Mayer. Martedì scorso ha presentato il suo libro al Senato e ci tiene a lanciare un appello: "Mi metto a disposizione degli istituti di primo e secondo grado per andare a presentare il libro nelle classi e diffondere queste storie".
Linda Coscetti
"Tutti noi sappiamo che ci sono delle contraddizioni da comprendere e siamo abituati a capire che spesso una nuova autopsia può svelare elementi che inizialmente potrebbero non essere stati chiariti". Poche parole, ma che danno corpo a un’azione di deciso approfondimento di una vicenda inquietante e rimasta in sospeso. Un’azione innescata dal gip di Trieste Luigi Dainotti pochi mesi fa. Le parole sono quelle pronunciate nel corso della trasmissione televisiva ’Quarto grado’ dall’ex capo del Ris, Luciano Garofalo, oggi consulente del marito di Liliana Resinovich, Sebastiano Visintin. La vicenda è quella di Liliana, la donna di 63 anni scomparsa da casa, a Trieste, il 14 dicembre 2021 e ritrovata morta il 5 gennaio 2022 nel parco dell’ex ospedale psichiatrico a San Giovanni. Il cadavere verrebbe dunque riesumato per essere sottoposto a nuovi esami autoptici, evidentemente alla ricerca di elementi che possano individuare le cause della morte. Sono in molti a ritenere, infatti, che l’ipotesi del suicidio sia un azzardo.
L’aereo l’ha perso, ma almeno, trent’anni dopo, la ’mamma’ l’ha ritrovata. L’attore Macaulay Culkin, protagonista del film cult ’Mamma ho perso l’aereo’, si è riunito con Catherine O’Hara, sua madre cinematografica, esattamente trent’anni dopo l’uscita della pellicola nelle sale. I due si sono abbracciati calorosamente in occasione della cerimonia per il conferimento della stella ’Hollywood Walk of Fame’ a entrambi gli attori. Oggi Culkin ha 43 anni, mentre O’Hara ne ha 69. "’Mamma ho perso l’aereo’ è stato, è e sarà sempre un grande successo globale – ha dichiarato l’attrice –, ma il motivo per cui le famiglie di tutto il mondo continuano a guardare quel film ancora oggi anno dopo anno è soltanto Macaulay Culkin". Un modo elegante e sentito di celebrare la straordinaria performance del baby attore che però non è riuscito a bissare il successo nel corso della sua tormentata carriera davanti alla macchina da presa.
La Procura della Repubblica di Milano non ha dubbi: una gigantesta frode ai danni dello Stato è stata compiuta, secondo l’ipotesi investigativa, gestendo in modo più che disinvolto il Cpr di via Corelli a Milano. Tanto che, dopo l’apertura dell’indagine, la struttura che accogliue gli stranieri irregolari è ora a un passo da commissariamento.
Le irregolarità, in alcuni casi, sono macroscopiche. Come quella compiuta mettendo a punto un falso protocollo d’intesa con Dianova Italia, una realtà internazionale che gestisce comunità per tossicodipendenti e che con il Cpr non ha mai avuto contatti. Gli assuntori abituali di sostanze stupefacenti vengono descritti come "bambini non cresciuti", alternando nelle frasi refusi e concetti elementari.
In un’altra falsa convenzione, tra quelle presentate alla prefettura di Milano per simulare rapporti con realtà del terzo settore e ottenere quindi crediti nella fase della gara d’appalto da 1,3 milioni, compare addirittura la firma falsificata di un morto, l’ex presidente della società sportiva Scarioni 1925. "Non abbiamo mai avuto rapporti con questa società – spiega ora Pierangelo Puppo, presidente di Dianova Italia –. Esprimiamo solidarietà, in attesa dell’esito delle indagini, con le persone trattenute nel Cpr che hanno subito questi trattamenti".
Dianova ha presentato anche un esposto alla Procura contro Martinina srl, disconoscendo "la paternità" del protocollo. Una strada che potrebbe essere seguita anche da altre realtà citate nelle false convenzioni.
Questo è solo uno dei fronti dell’indagine per frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta, coordinata dai pm Giovanna Cavalleri e Paolo Storari, che ha messo sotto la lente una struttura con problemi che si trascinano da anni. Centro che, ora, potrebbe essere affidato a un commissario. Gli stranieri trattenuti nel Cpr di via Corelli 28 ricevono "cibo maleodorante, avariato" e "scaduto". Carenze che riguardano anche le cure mediche, in una struttura dove, annota la Gdf, sono presenti "ospiti affetti da epilessia, epatite, tumore al cervello, gravi patologie psichiatriche, tossicodipendenti".
Nei prossimi giorni verranno ascoltati altri testimoni, tra cui operatori e dipendenti che, tra l’altro, subivano ritardi nei pagamenti. L’ipotesi investigativa è che, risparmiando sui servizi, gli amministratori della Martinina abbiano fatto la “cresta“, intascando fondi pubblici destinati alla gestione del centro con una capienza scesa a 48 posti. Una tariffa di 40,18 euro a migrante al giorno, più 132,6 euro per il kit di primo ingresso, a fronte di servizi carenti ed "espedienti maliziosi e ingannevoli" da parte degli indagati, Consiglia Caruso e il figlio Alessandro Forlenza. Una gestione familiare di una società con sede a Pontecagnano Faiano (Salerno) con un capitale di 10mila euro e 18 dipendenti e un vorticoso "oggetto sociale".
Papa Francesco si è congratulato con lo scrittore norvegese Jon Fosse, 64 anni, vincitore del Premio Nobel della Letteratura 2023, che, come da lui stesso raccontato, si è convertito al cattolicesimo nel 2012, lo stesso anno in cui ebbe un tracollo fisico a causa dell’abuso di alcol. Il 18 ottobre il pontefice ha inviato una lettera a Fosse di felicitazioni per il prestigioso riconoscimento ricevuto dall’Accademia Reale Svedese, come ha reso noto ora l’ufficio stampa della Conferenza episcopale della Norvegia.
Nella lettera, Papa Francesco scrive che Fosse (foto sotto) ha "il potere di evocare le grazie, la pace e l’amore di Dio Onnipotente nel nostro mondo spesso oscurato" e ritiene che la letteratura di Fosse possa "arricchire la vita di altri pellegrini sulla via della fede".
Mìlena o Milena. Lei è Milena, la protagonista di La verità che ci riguarda, secondo romanzo di Alice Urciuolo (foto), dopo il debutto Adorazione che sta per diventare una serie Netflix. Mìlena invece è la protagonista del libro di Franz Kafka. Un libro un po’ scollato nella copertina che la protagonista del romanzo maneggia e legge, finché non incrocia lo sguardo con un uomo, Emanuele, una decina di anni più grande di lei. Si materializza l’amore, forse, e lo snodo cruciale di una vita che ha un passato per niente facile. Una relazione che sembra bellissima, come quella di Kafka e la sua Mìlena, almeno in apparenza. Tanto da cambiare l’accento del suo nome come quello della protagonista del libro dello scrittore boemo. Ma la difficoltà sta proprio tutta qui nel riconoscere, non necessariamente in anticipo, le storture di una relazione. E quando la manipolazione (più o meno evidente) guida la relazione stessa. Milena del romanzo è figlia di una donna che continua a spendere una fortuna dai suoi risparmi per sostenere la Chiesa della Verità che tra poco, grazie anche ai finanziamenti (più o meno) volontari di altri e altre come la madre di Milena, diventerà la Casa della Verità. Tiziano è il guru, un santone di questa chiesa che assomiglia a una setta e forse lo è, perché nel tempo viene percepita come tale in un paese della provincia laziale (per l’esattezza in Ciociaria). Quanto è manipolatoria, anche in questo caso, la relazione di tutt’altra natura che lega la finanziatrice (la mamma di Milena) con il santone? Lei è convinta che lui abbia in qualche maniera guarito sua figlia dall’anoressia.
È un romanzo che indaga forte sulle nostre credenze, sui nostri sentimenti, sulle nostre fragilità, anche quando siamo convinti di non averne o in particolar modo quando siamo sicuri di aver trovato un equilibrio. Che quell’equilibrio sia un amore o una fede in qualcosa, poco importa. E anche il corpo, non solo per un equilibrio psico-fisico, resta al centro del romanzo. Soprattutto nel vissuto di Milena: il corpo odiato prima, rinnegato poi, ritrovato e di nuovo al centro di gioia, sofferenze e pensieri (lo scoprire di essere incinta, l’aborto).
Allo stesso tempo però c’è quasi una genetica del dolore, un’ereditarietà che si trasmette da madre in figlia. Due che non si sono mai capite. Ma che nel momento in cui sono più lontane, utilizzando come unità di misura la distanza chilometrica, sono invece più vicine. Anche di quello che può sembrare.
Matteo Massi
"Nel lungo periodo i mercati azionari crescono sempre". È la storia a confermare una delle regole auree della finanza: dal 1871 a oggi, infatti, un orizzonte temporale di 20 anni ha garantito a Wall Street rendimenti reali sempre positivi e nessun asset – né l’oro, né le valute e nemmeno le obbligazioni – ha superato la performance delle azioni. Dalla storia alla cronaca, che registra un vero e proprio boom dei mercati europei, in modo particolare Piazza Affari, dove dall’inizio dell’anno l‘indice Ftse Mib ha guadagnato il 26,24%, toccando quota 29.928 punti e confermandosi la migliore piazza finanziaria del vecchio continente. La Borsa di Milano è ai massimi degli ultimi 15 anni, sui livelli antecedenti la grande crisi finanziaria del 2008, quella dei mutui ‘subprime’.
Meglio di Piazza Affari quest’anno hanno fatto solo il Nasdaq di New York (+36,6%) e Tokyo (+28,12%), mentre Madrid ha guadagnato il 23,23%, Francoforte il 17,77% e Parigi il 13,48%. Per queste ultime due piazze i record di sempre sono stati raggiunti nei mesi scorsi: la Borsa tedesca ha chiuso la settimana con un +1,06% a 16.386 punti, dopo aver toccato i 16.469 punti lo scorso 31 luglio, e Parigi ha guadagnato lo 0,49% a 7.346 punti, ma lo scorso 24 aprile era a 7.573 punti.
Tra le cause dei recenti rialzi, l’ottimismo dei mercati sulle prossime decisioni delle banche centrali in merito ai tassi d‘interesse, che dovrebbero iniziare a scendere anche alla luce degli ultimi dati sull’inflazione in netto calo, e la stagione delle trimestrali, molto positiva soprattutto per il comparto bancario.
Si è ridotta, inoltre, la tensione sui titoli di Stato, come evidenziato dalla dinamica degli spread. Quello italiano ha chiuso la settimana in calo a 173,3 punti, contro i 177,5 dell‘apertura e i 177 segnati nella vigilia in chiusura. Il rendimento è sceso di 12,9 punti al 4,09%, mentre l‘analogo dato tedesco è sceso di 8,6 punti al 2,35%. In calo anche i rendimenti in Francia (-9,6 punti al 2,92%), negli Usa (-11 punti al 4,21%) e in Spagna (-11,3 punti al 3,35%).
A frenare l‘euforia dei mercati ci ha pensato il presidente della Fed Jerome Powell, che ritiene prematuro un allentamento della stretta monetaria. A suo dire, i rischi per l‘economia sono oggi "più bilanciati", ma la banca centrale Usa è pronta ad aumentare ancora i tassi se sarà necessario. Secondo Powell "il recente calo dell‘inflazione è una buona notizia, ma deve continuare" e la Fed non intende modificare l‘obiettivo del 2%. Sul fronte Bce, occhi puntati sul discorso di domani della presidente Christine Lagarde a Parigi, l’ultimo prima della riunione del 14 dicembre nella quale Francoforte potrebbe dare segnali di cambiamento della politica monetaria restrittiva.
Era l’autunno del 1983 e gli spettatori italiani andavano a conoscere una nuova specie di programma: Drive In. È vero che c’erano già state trasmissioni come Non stop, o A tutto gag che avevano stravolto la grammatica della comicità nel piccolo schermo, ma con Drive In quella riforma costituzionale delle battute veniva definitivamente consacrata. Lo ha spiegato molto bene il suo stesso autore, Antonio Ricci, al recente convegno organizzato a Milano all’Università Cattolica. "Pativo i balletti e le canzoni dei varietà tradizionali, inventai Drive In basandomi non sulla velocità ma sul ritmo. In novanta minuti netti di trasmissioni c’erano ben cinquanta situazioni diverse. A volte dovevamo tagliare un pezzo comico di soli 15 secondi, e in quei 15 secondi ci infilavamo qualcos’altro".
Intensità, si direbbe sui campi di calcio. E in questo modo c’era posto se non per tutti, almeno per molti, moltissimi. Una legione di nuovi comici fino ad allora confinati nei cabaret (primo fra tutto il mitico Derby) diventarono popolarissimi. Elenco non esaustivo: Syusy Blady e Patrizio Roversi, Massimo Boldi, Teo Tecoli, Enzo Braschi, Malandrino e Veronica, Guido Nicheli, Carlo Pistarino, I Trettrè, Sergio Vastano, Mario Zucca, Francesco Salvi, Zuzzurro e Gaspare, Giorgio Faletti oltre naturalmente a Ezio Greggio e Gianfranco D’Angelo. Ognuno col suo personaggio, pronto a incidere nella memoria collettiva con tormentoni sopravvissuti ai tempi: da "Porco il mondo che c’ho sotto i piedi" (il Vito Catozzo di Faletti), al Carlino di Passerano Marmorito, col suo "giumbotto", anche questo di Faletti, il Testimone di Bagnacavallo (sempre Faletti) "Credete forse che io... e non vi veda?" all’"Asta tosta" di Greggio ("oggetti tosti per tutti i gosti" con l’immancabile opera di Teomondo Scrofalo introdotto dalla frase "È lui o non è lui? Cerrrto che è lui!"). Senza dimenticare il Tenerone di D’Angelo ("Emozioneee"), e ancora l’immarcescibile “Has Fidanken“, il cocker restio a obbedire a qualunque comando. Ma soprattutto bisogna ricordare quello che forse è stato il personaggio più emblematico e potente di tutta la squadra: il paninaro di Enzo Braschi. Ricci aveva notato le aggregazioni giovanili in piazza San Babila, e mandò Braschi a studiarne le costumanze. Ne uscì il personaggio con l’imprescindibile piumino e gli altrettanto imprescindibili scarponcini Timberland, e il corrispettivo linguaggio allora “giovanile“ (le "sfitinzie").
Come nacque Drive In? Ancora Ricci: "Berlusconi non era interessato a questo tipo di trasmissione, e non voleva spendere soldi per una tv che aveva appena acquisito. A lui interessavano gli show con le grandi star della tv e del cinema. Di comicità gli piaceva solo Benny Hill. Io invece volevo fare un programma tutto di comici che prendesse in giro l’americanizzazione dell’Italia che allora era rappresentata dall’arrivo dei fast food, dalle serie come Dallas. Ecco perché l’ambientazione in un drive-in, ecco perché le ragazze fast food". Anche loro meritano di essere ricordate, e di sicuro saranno rimaste impresse nella memoria di qualche lettore: Tinì Cansino, Nadia Cassini, la top model Antonia Dell’Atte, Eva Grimaldi, Cristina Moffa, Johara, Ambra Orfei. Tutte impegnate a impersonare con ironia le svampite maggiorate.
Al convegno Barbara Palombelli ha dato un’interpretazione suggestiva della nascita del programma: "Il 1983 fu un anno importante. Al potere andava Bettino Craxi, artefice a suo modo di una certa modernità. L’Italia usciva dall’epoca del terrorismo, il sequestro Dozier nell’81 era stato l’ultimo atto. E, come nel dopoguerra, c’era una gran voglia di vivere, ridere, gioire, è di quell’anno il primo Vacanze di Natale. Fino ad allora la gioia esplodeva all’esterno delle case, guardare la tv era una roba da sfigati. Con Drive In invece si scoprì la voglia di ridere anche all’interno delle abitazioni, si formavano gruppi di ascolti per guardarlo tutti insieme".
Con orgoglio Antonio Ricci ha ricordato che il programma aveva anche una vasta area di satira politica che prendeva in giro i politici di ogni colore (De Mita, Goria, De Michelis, Spadolini): "Il primo anno nessuno sapeva cosa sarebbe andato in onda, nessuno sapeva cosa scrivevamo. E quando, nel secondo anno, se ne sono accorti, ormai era troppo tardi per tornare indietro. Considero Enzo Trapani il mio maestro: lui mi spiegò che, una volta avviata una macchina produttiva, interromperla costa un mucchio di soldi. Perciò hai in mano un incredibile strumento di contrattazione". Drive In visse, su Italia 1, dal 4 ottobre 1983 al 17 aprile 1988. Troppo poco? Forse il necessario per entrare, come le grandi rockstar morte giovani, nel mito.